«Diventare genitori e formare una famiglia che abbia dei figli» è «espressione della fondamentale e
generale libertà di autodeterminarsi». Il nucleo essenziale delle motivazioni con le quali la Corte Costituzionale, lo scorso 9 aprile, ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa in Italia, previsto dall’articolo 4 comma 3 Legge 40/2004, è in queste parole.
Che però – al di là dell’entusiasmo con cui sono state accolte da alcuni – sollevano un dubbio a dir poco inquietante, e cioè quello per cui, da soggetto quale è, il figlio possa essere considerato oggetto. Il dubbio, insomma, che esista, sia pure limitato a talune coppie, una sorta di “diritto al figlio”.Per la verità già l’ammissione, da parte del nostro ordinamento, al ricorso della pratica della fecondazione extracorporea, purtroppo, alimentava questo sospetto. Un sospetto che non solo la Consulta oggi conferma pienamente, ma persino aggrava stabilendo come «la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile» riguardi «la sfera più intima ed intangibile della persona umana». Il che significa che da un lato il “diritto al figlio” – sia pure contrabbandato come cura della sterilità – esiste, e, d’altro lato, detto diritto prevale, oltre che sul diritto del figlio a non essere considerato oggetto, anche su quello, sempre del figlio, alla bigenitorialità biologica.
Va detto che le palesi contraddizioni della Legge 40 hanno certamente favorito un verdetto del genere – basti dire che la norma, che pure vietava la fecondazione eterologa, all’articolo 9 riconosceva il titolo di figlio legittimo a quello concepito all’estero con questa stessa tecnica -; rimane tuttavia il fatto che il ragionamento articolato dalla Corte Costituzionale, a quanto pare, si basa sull’ipotesi che il figlio, almeno prima della nascita, non sia persona. Perché se così non fosse, se fosse considerato persona, evidentemente non potrebbe – al pari di ogni altra persona – essere oggetto di alcun genere di rivendicazione o richiesta altrui. Neppure di quelle dei propri aspiranti genitori.
Invece ora “tutti hanno il diritto di avere figli”, come titolavano ieri più portali web. Solo che il “diritto al figlio” – confermato nei termini che abbiamo detto – è un assurdo logico prima che giuridico. Stabilire infatti che le coppie sterili abbiano diritto di vedere soddisfatte le proprie aspirazioni pena l’essere discriminate da quelle con figli equivale ad affermare che il cittadino single abbia “diritto al marito” o “diritto alla moglie”, altrimenti avrebbe titolo per sentirsi discriminato rispetto al cittadino felicemente sposato: un’evidente follia. Eppure non si capisce per quale ragione, seda un lato non esistono il “diritto al marito” o “diritto alla moglie”, dall’altro debba de facto esistere il “diritto al figlio”, dato che il potenziale figlio è persona tanto quanto il potenziale consorte.
C’è infine un ultimo profilo problematico, finora sfuggito ai media e a coloro che hanno commentato le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale. Ed è questo: se – sia pure col pretesto del diritto alla salute e della conseguente cura della sterilità che però, per la cronaca, con la fecondazione extracorporea (neppure eterologa) non viene curata – riconosciamo alla coppia il “diritto al figlio”, per quale ragione limitiamo la scelta dell’aborto alla sola autodeterminazione della donna? La contraddizione – già notata da Marie Fox (A Woman’s Right to Choose?, Oxford 2003) – è lampante: si attribuisce alla coppia il diritto di concepire il figlio, ma si limita alla donna la scelta di non accoglierlo prima della nascita. E se il padre volesse ancora quel figlio, il suo “diritto al figlio” non vale più?
In definitiva l’impressione è che, a seconda delle situazioni, si privilegino i più vari interessi – quelli della coppia, quelli della coppia sterile, quelli della donna che non se la sente di portare a termine una gravidanza, ecc. – salvo quello di colui che rimane il soggetto debole. Vale a dire, per l’appunto, il figlio. E questa, comunque la si pensi sul divieto – ora abrogato – del ricorso alla fecondazione eterologa e sulla fecondazione stessa, rappresenta una bruciante sconfitta per una giustizia sempre più dissociata da un diritto che, dispiace segnalarlo, pare ormai appiattito sulla realtà che dovrebbe regolamentare. Come se non fossero le leggi, in una qualche misura, a definire la giustizia che orienta la società ma fosse questa, con le sue mutevoli istanze e i suoi capricci, ad orientare le leggi e la giustizia.
Giuliano Guzzo - Leggi il blog.
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