Uguaglianza solennemente scandita dalla Costituzione, forte attenzione alle pari opportunità, perfino un Ministro dell’integrazione: in Italia, così come in altri Paesi europei, le premesse per una società avanzata ed ostile alle discriminazioni sembrano esserci tutte.
Apparentemente, cioè, l’attenzione sociale – ma anche istituzionale – al tema dei diritti è ai suoi massimi storici. Posto che il mondo perfetto non esiste, verrebbe dunque da stare tranquilli: la strada imboccata, infatti, sembra quella giusta e l’idea di una comunità veramente progredita prossima al suo realizzarsi. Tutto questo a prima vista. Sì, perché basta grattare leggermente sulla patina della retorica per imbattersi subito, a livello sociale, non solo nella permanenza di talune discriminazioni, ma addirittura nel loro moltiplicarsi e – peggio ancora – nella loro buonista giustificazione. Qualche esempio potrà aiutare a capire.
Prendiamo il diritto alla vita. Nessuno, a parole, oserebbe oggi metterlo in discussione. Eppure viene quotidianamente calpestato – anche sotto regimi democratici – attraverso l’avvenuta depenalizzazione dell’aborto procurato, che permette quotidiane discriminazioni fra bambini nati e bambini ai quali viene impedito di nascere, fra figli di famiglie benestanti o comunque in grado di accoglierli e figli di donne sole o famiglie povere, fra esseri umani ai quali viene riconosciuto il diritto di nascere ed altri esseri umani ai quali, purtroppo, nessun diritto potrà più essere riconosciuto. Qui la discriminazione è, in assoluto, delle più palesi. Tuttavia non solo viene accettata ma, il più delle volte, è perfino giustificata sotto il rassicurante ombrello retorico ora del “diritto alla maternità responsabile” ora di non meglio precisati “diritti riproduttivi”. Come se parole più o meno belle, alla lunga, potessero rimuovere una realtà oggettivamente orrenda.
Ma andiamo avanti. Un altro esempio di discriminazione oggi paradossalmente consentita o almeno non adeguatamente denunciata – e fra l’altro strettamente correlata a quella già ricordata – riguarda la maternità. Non passa ormai giorno nel quale non venga giustamente sottolineata l’urgenza di garantire la parità fra uomo e donna. Eppure, mentre un uomo divenuto padre (salvo casi eccezionali) non subisce alcun genere di discriminazione, una donna incinta, molto frequentemente, rischia il posto di lavoro, soprattutto se il suo impiego rientra nel settore privato. Trattasi di un fenomeno che, a parte forse alcuni stati del nord Europa, è sempre più diffuso e non risparmia nemmeno Paesi di lunga tradizione giuridica, come per esempio l’Inghilterra dove, da un lato, un gran numero di donne lavora e, dall’altro, ogni anno per molte madri la maternità diviene anticamera del licenziamento. Gravissimo? Certo. Peccato che anche in questo caso vi sia una formula – “diritto all’occupazione femminile” -, dietro la quale il problema, magicamente, scompare.
Un terzo esempio di discriminazione se non ancora del tutto accettata prossima dal diventarlo, riguarda il diritto dei minori a crescere coi propri genitori e, segnatamente, con un padre ed una madre. Un diritto che – come accade per il diritto alla vita e quello alla maternità – nessuno a parole contrasta, ma che nei fatti è sempre più ignorato come dimostra l’introduzione, nelle varie legislazioni, dell’istituto delle adozioni da parte delle cosiddette famiglie omogenitoriali. Il che, in pratica, si traduce proprio nella violazione del figlio a crescere con un padre ed una madre. Una violazione talmente grave per, pur di occultarla, si sta progressivamente ricorrendo a pietosi stratagemmi retorici quali per esempio la sostituzione delle parole “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”. Ci sarebbe da ridere se il fenomeno, anche qui, non fosse drammaticamente reale e giustificato dal non meglio precisato “diritto ad avere un figlio” (chi l’ha detto che il figlio è un diritto?), ennesimo ventaglio lessicale per nascondere l’ennesima discriminazione.
Ora, i casi dell’aborto procurato, della mancata tutela della maternità e del diritto di ogni bambino a crescere con un padre ed una madre – rispettivamente giustificati con le etichette dei “diritti riproduttivi”, del “diritto all’occupazione femminile” e del “diritto ad avere un figlio” – non sono certamente gli unici esempi di discriminazioni oggi dimenticate; non siamo così ingenui. La loro manifesta gravità ci aiuta però, a dispetto delle premesse rassicuranti ricordate in premessa, a riflettere sull’inquietante svuotamento etico del diritto, della politica e della società. Uno svuotamento che, come da tempo e da più parti osservato, si realizza sovrapponendo acriticamente il legittimo al possibile, ciò che è giusto fare a quel che si può fare. La libertà diviene così Libertà Assoluta e quel che rimaneva della Verità viene rimpiazzato col cinico paradigma del vantaggio. In questa prospettiva, il Legislatore è ridotto a notaio della realtà e il diritto di ciascuno ad indignarsi dinnanzi alle aberrazioni viene annullato dal dovere di farsi gli affari propri. Silenzio – è l’ammonimento diffuso – il festival dei diritti è in corso. E guai a chi osa interromperlo.
Prendiamo il diritto alla vita. Nessuno, a parole, oserebbe oggi metterlo in discussione. Eppure viene quotidianamente calpestato – anche sotto regimi democratici – attraverso l’avvenuta depenalizzazione dell’aborto procurato, che permette quotidiane discriminazioni fra bambini nati e bambini ai quali viene impedito di nascere, fra figli di famiglie benestanti o comunque in grado di accoglierli e figli di donne sole o famiglie povere, fra esseri umani ai quali viene riconosciuto il diritto di nascere ed altri esseri umani ai quali, purtroppo, nessun diritto potrà più essere riconosciuto. Qui la discriminazione è, in assoluto, delle più palesi. Tuttavia non solo viene accettata ma, il più delle volte, è perfino giustificata sotto il rassicurante ombrello retorico ora del “diritto alla maternità responsabile” ora di non meglio precisati “diritti riproduttivi”. Come se parole più o meno belle, alla lunga, potessero rimuovere una realtà oggettivamente orrenda.
Ma andiamo avanti. Un altro esempio di discriminazione oggi paradossalmente consentita o almeno non adeguatamente denunciata – e fra l’altro strettamente correlata a quella già ricordata – riguarda la maternità. Non passa ormai giorno nel quale non venga giustamente sottolineata l’urgenza di garantire la parità fra uomo e donna. Eppure, mentre un uomo divenuto padre (salvo casi eccezionali) non subisce alcun genere di discriminazione, una donna incinta, molto frequentemente, rischia il posto di lavoro, soprattutto se il suo impiego rientra nel settore privato. Trattasi di un fenomeno che, a parte forse alcuni stati del nord Europa, è sempre più diffuso e non risparmia nemmeno Paesi di lunga tradizione giuridica, come per esempio l’Inghilterra dove, da un lato, un gran numero di donne lavora e, dall’altro, ogni anno per molte madri la maternità diviene anticamera del licenziamento. Gravissimo? Certo. Peccato che anche in questo caso vi sia una formula – “diritto all’occupazione femminile” -, dietro la quale il problema, magicamente, scompare.
Un terzo esempio di discriminazione se non ancora del tutto accettata prossima dal diventarlo, riguarda il diritto dei minori a crescere coi propri genitori e, segnatamente, con un padre ed una madre. Un diritto che – come accade per il diritto alla vita e quello alla maternità – nessuno a parole contrasta, ma che nei fatti è sempre più ignorato come dimostra l’introduzione, nelle varie legislazioni, dell’istituto delle adozioni da parte delle cosiddette famiglie omogenitoriali. Il che, in pratica, si traduce proprio nella violazione del figlio a crescere con un padre ed una madre. Una violazione talmente grave per, pur di occultarla, si sta progressivamente ricorrendo a pietosi stratagemmi retorici quali per esempio la sostituzione delle parole “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”. Ci sarebbe da ridere se il fenomeno, anche qui, non fosse drammaticamente reale e giustificato dal non meglio precisato “diritto ad avere un figlio” (chi l’ha detto che il figlio è un diritto?), ennesimo ventaglio lessicale per nascondere l’ennesima discriminazione.
Ora, i casi dell’aborto procurato, della mancata tutela della maternità e del diritto di ogni bambino a crescere con un padre ed una madre – rispettivamente giustificati con le etichette dei “diritti riproduttivi”, del “diritto all’occupazione femminile” e del “diritto ad avere un figlio” – non sono certamente gli unici esempi di discriminazioni oggi dimenticate; non siamo così ingenui. La loro manifesta gravità ci aiuta però, a dispetto delle premesse rassicuranti ricordate in premessa, a riflettere sull’inquietante svuotamento etico del diritto, della politica e della società. Uno svuotamento che, come da tempo e da più parti osservato, si realizza sovrapponendo acriticamente il legittimo al possibile, ciò che è giusto fare a quel che si può fare. La libertà diviene così Libertà Assoluta e quel che rimaneva della Verità viene rimpiazzato col cinico paradigma del vantaggio. In questa prospettiva, il Legislatore è ridotto a notaio della realtà e il diritto di ciascuno ad indignarsi dinnanzi alle aberrazioni viene annullato dal dovere di farsi gli affari propri. Silenzio – è l’ammonimento diffuso – il festival dei diritti è in corso. E guai a chi osa interromperlo.
(Giuliano Guzzo)
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