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Scenari di liti future in famiglia: la disputa sulle identità dei genitori 1 e 2.

Una delle frasi più famose della televisione era dello scomparso Mike Bongiorno “vuole la busta 1, la 2 o la 3?”. 


A sentire quel che viene dal comune di Bologna, sembra di vedere l’impiegato allo sportello che ti dice “vuole essere il genitore 1 o il genitore 2?”. Siamo veramente al paradosso e al parossismo verbale. Va bene non urtare la sensibilità delle persone, ma cambiare il termine “padre” e “madre” con “genitore” per non offendere le coppie non-eterosessuali, è veramente da chiamare la neuro. 

Lo dico con profondo rispetto per ogni persona, al di là del proprio orientamento sessuale. Io sfido qualsiasi adulto che ha un bambino ai primi mesi di vita a insegnargli come prima parola “genitore” al posto di “mamma” o “papà”. A parte gli scombussolamenti e le crisi di identità, anche a livello fonatorio la parola risulta del tutto innaturale. Non foss’altro perché non è onomatopeica. Che siamo al paradosso verbale lo dice anche la parola stessa “genitore”. La stessa etimologia perde di significato, ma la frase appena scritta è di per sé paradossale. Deriva dal latino genit-us - gen-o, che vuol dire produco. 

Il significato è meraviglioso, “genitore” è una meravigliosa parola con la quale si descrive la persona che genera, che da vita ergo, un “padre” e una “madre” appunto. Lasciamo poi da parte tutti i paradossi dei documenti e delle relazioni familiari. Il nonno, come si chiama “genitore 1 del genitore 1”? lo zio “fratello 1 del genitore2”? La suocera? “il genitore 2 del genitore 1 che ha sposato il genitore2”. E poi, se volessimo tirare ancora un po’ la corda, perché “genitore 1” e “genitore2”, se siamo tutti uguali chi lo stabilisce chi deve venire prima o dopo? Allora facciamo “genitore A” e “genitore B”. Ma anche questa ipotesi ha delle implicazioni qualitative. Che sia polemica o questione di buon senso? Ci sono dei termini, entrati in ogni epoca ed in ogni storia che identificano la nostra identità personale. 

Noi abbiamo bisogno di chiamare chi ci dà la vita “madre” e “padre”, in tutte le lingue e in tutti i costumi possibili. È un bisogno identitario che ci deriva da secoli di civiltà; ma non esistono più il “pater familias” e la “mater familias” di romana memoria? Lasciamo da parte questi sofismi pseudo-letterari per non sembrare ed essere dei “sepolcri imbiancati” di evangelico ammonimento. Ritorniamo a dare senso pieno e vero alle parole, alla nostra cultura e alla nostra identità. Ognuno di noi si senta libero di vedere il proprio genitore e con tanto affetto continui a chiamarlo “babbo” (o “papà”) e “mamma”, senza peli sulla lingua dal sapore ipocrita.

Emiliano Tognetti.

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