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In risposta all'articolo dell'Espresso su Sara


La testimonianza di Sara, quando aborto e dolore vanno sempre a braccetto




Su molti media si parla ormai da diverso tempo delle difficoltà che le donne incontrerebbero in Italia per terminare una gravidanza, soprattutto a causa del crescente numero di medici obiettori. Proprio ieri un'altra voce si è unita a questo coro. Lo ha fatto l'edizione online de l'Espresso, che ha pubblicato la testimonianza di Sara, una ventottenne romana, attrice e insegnante di teatro, che nel marzo del 2011 ha deciso di abortire dopo aver scoperto di essere rimasta incinta per “un errore di calcolo del ciclo”. 



Il racconto di Sara appare a tratti freddo, distaccato, apparentemente asettico, ma in più punti fa emergere in tutta la sua crudezza la tragica realtà dell'aborto. È un racconto dettagliato, con tanto di dialoghi con medici e infermieri. Dopo la minuziosa descrizione di tutta la trafila affrontata, balza agli occhi di chi legge questo passaggio: 



«È superfluo spiegare che un mese in più - un mese in più in cui un bambino ti cresce dentro, in cui il tuo corpo cambia, in cui senti la vita nella tua vita - fa un'enorme differenza. Potrebbe anche farti cambiare idea, un mese in più. Potrebbe subdolamente darti il tempo di sentirti troppo in colpa. Aspettare un mese. Non ce la potevo fare. E in più l'8 maggio era giorno di spettacolo: uno spettacolo in allestimento da quasi un anno». 



Freddezza, alle estreme conseguenze. Qualcosa di agghiacciante, appunto. In queste righe, che sembrano scritte con sincera lucidità, trova spazio tutto il dramma dell'aborto. Perché l'essere che cresce dentro a questa donna è chiamato proprio 'bambino', non 'grumo di cellule'; perché una decisione come questa, anche se apparentemente ferma e definitiva, non potrà mai sottrarsi al vaglio della nostra coscienza; perché oggi la vita - e ormai lo si dice fuori dai denti - vale meno di uno spettacolo. 



E ancora Sara, riguardo al fatto di essere stata indirizzata in un sotterraneo invece che in un normale reparto dell'ospedale: 



«Non è ammissibile che una donna al settimo mese, in ospedale per il controllo periodico, incroci una madre degenere, che a cuor leggero decide di far fuori suo figlio. Non sta bene. Nascondiamole, queste "vergogne" della società. Rendiamo loro le cose più difficili, più dure, più umilianti. E anche se il nostro lavoro lo facciamo, veicoliamo il nostro disprezzo per altri canali, meno "verbali"». 



Ma qui il problema non sta nella legge 194 o nei medici obiettori. Il problema sta proprio nell'aborto in sé, che è diventato qualcosa da nascondere con ogni mezzo agli occhi della società. L'esperienza vissuta da Sara appare come la contraddizione più grande con la quale siamo chiamati a confrontarci: quella dell'aborto sempre più nascosto, lontano dalla gente, ma al tempo stesso promosso, spesso apertamente e senza troppi veli, da una cultura contraria all'accoglienza della vita. 



Sara conclude poi così la sua testimonianza: 



«A volte ho pensato che se avessi vissuto in un paese con gli asili nido all'università, con i sussidi per le giovani mamme, con qualche possibilità in più del lavoro precario, con più dignità per gli artisti e gli attori... boh, magari ora sarei mamma» ... «Non lo so. Sicuramente non ero pronta, allora. E sicuramente il pensiero di quel giorno mi rimarrà dentro per tutta la vita. E sarà un pensiero doloroso, e un senso di colpa insolvibile». 



Anche queste amare parole ci forniscono una conferma: aborto e dolore sono due realtà che vanno sempre a braccetto. Perché una scelta come l'aborto, anche se fatta liberamente, anche se frutto di una volontà ferma e lucida, non puoi mai evitare di fare i conti con la sofferenza, sia essa presente o futura. La storia di Sara, ancorché pubblicata con intenti non certamente a difesa della vita, ci dimostra proprio questa verità. 



Andrea Tosini


QUI l'articolo dell'Espresso 

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