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Hans Kung e l'eutanasia: prima la vita o la dignità?

«Quanto ancora potrò vivere la mia vita con dignità?», si chiede Hans Küng. Una domanda al quale il teologo progressista, nella sua ultima fatica - Erlebte Menschlichkeit, un libro di memorie – risponde segnalando a se stesso e ai suoi lettori la soluzione, a suo dire legittima, del suicidio assistito.

 «Nessuno dovrebbe essere obbligato a tollerare delle sofferenze insopportabili come se fossero inviate da Dio», ha poi aggiunto, sottolineando come sia il contrasto a «sofferenze insopportabili» l’elemento che dovrebbe giustificare il ricorso all’eutanasia o al suicidio. In apparenza lineare e convincente, il ragionamento è in realtà debolissimo, già a partire dalle premesse. Infatti - prima ancora che far notare come il progresso medico già oggi si in grado di annullare il rischio di «sofferenze insopportabili» - è bene evidenziare come Küng commetta un errore di fondo decisivo, vale a dire la possibilità che si possa vivere o meno una «vita con dignità». Il che configura, come prospettiva, si delinea satura di criticità. 

Se infatti il suicidio è accettabile sulla base del fatto che qualcuno non veda la propria «vita con dignità», chi siamo noi per consolare – e trattenere alla vita – l’aspirante suicida disoccupato, depresso o deluso sentimentalmente? In altre parole se la «vita con dignità» diviene il criterio di legittimazione del darsi la morte, non solo il suicidio – che non è sanzionato perché non sanzionabile, non già perché ammesso (tanto è vero che si punisce l’istigazione al suicidio) – di colui vittima di «sofferenze insopportabili», ma quello di chiunque diviene legittimo, pena l’adozione di condotte che diverrebbero automaticamente liberticide.

Ma questo, converrete, è un assurdo per una società civile nella quale si vuole promuovere il valore della solidarietà e del mutuo aiuto. In questo senso, il contrasto al suicidio (assistito o meno che sia) – posto che la contrarietà al suicidio accomuna moltissimi pensatori non cattolici, da Aristotele a Kant – non solo non riguarda i soli credenti, ma deve essere fatto proprio da tutti, senza distinzioni. Non ne va di un orizzonte morale, ma della sussistenza stessa di un’idea di morale che, diversamente, finirebbe sgretolata da istanze individuali in totale antitesi con la già ricordata necessità di una società che divenga e resti comunità e non neutrale sommatoria di esseri umani, con ciascuno libero di fare ciò che crede e tutti col dovere – avvilente e disumano - di stare a guardare.

(Giovani prolfie/Giuliano Guzzo)

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