Perché l'eutanasia non è una risposta alla malattia terminale: staccando quella spina, perdiamo un’unicità, un’originalità, che nessun altro essere umano avrà mai. Trasformiamo piuttosto i giorni di ricovero in giorni d'amore.
Nemmeno al malato terminale, che magari non si muove, non parla, non mangia autonomamente, insomma non fa nulla se non starsene coricato e respirare. E’ il classico “vegetale”, come viene comunemente definito. E perché lui non deve avere il diritto di vivere? Chi l’ha deciso? E’ come dire a un campione mondiale che vince le Olimpiadi : "Ora non ti premiamo perché hai già vinto troppe volte".
Eppure lui ci ha messo tutta la fatica, l’impegno e la costanza possibile. Allo stesso modo, sarebbe come dire a un malato: "Hai già vissuto troppo, è il momento che lasci il posto a qualcun altro. Perciò ti stacchiamo la spina che ti mantiene vivo". La gente deve capire che staccando quella spina, o peggio lasciando morire quel malato (addirittura di fame e di sete) perdiamo un’unicità, un’originalità, che nessun altro essere umano avrà mai; ed è la stessa cosa che avviene con l’aborto.
Qualcuno potrebbe obiettare: "Ma i medici dicono che gli mancano pochi mesi, perché farlo soffrire ancora?". Magari gli mancheranno solo due mesi di vita, ma noi possiamo trasformarli in sessanta giorni d’amore. Possiamo farlo sentire amato. Basta che smettiamo di essere spettatori e diventiamo attori di questa realtà: questo “mostro” si chiama eutanasia e non deve avere posto nel mondo di domani.
(Ilenia Viale)
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