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Il tuo cuore. Il mio cuore.



Fa male sentire il tuo cuore battere allo stesso tempo del mio.


Quella cosa c’è. Ne è sicura. La sente. Debora ha paura. Anche perché non se la sente ancora di dirlo a nessuno. Nemmeno a Leo. Ha paura del suo pensiero.

Leonardo potrebbe decidere di non aiutarla. È comunque un’eventualità e lei non la vuole scartare. Lui è sempre stato molto gentile con lei, fin troppo a volte, e ora sarebbe la volta buona che la potrebbe mandare a quel paese.
È che lei questo non se lo sarebbe mai aspettato. Fare l’amore a diciotto anni – quasi diciannove – è meraviglioso, ma non si riesce mai a pensare alle conseguenze.
Si pensa spesso all’ora e mai al dopo.
Anche se sinceramente, ultimamente, con la scoperta dell’esserci dell’essere pensa solo a quello. Anche l’esame l’ha superato per il rotto della cuffia, grazie all’aiuto del prof di italiano. Anzi, ora che ci pensa deve mandargli un messaggio. Non l’ha ancora ringraziato.
Prende il cellulare e scrive il messaggio, poi lo invia. Dopo qualche minuto arriva la risposta.
“Figurati! Se c’è un problema, ci salviamo tutti o nessuno, ricordalo sempre. Come spesso ho detto, eravate una buona classe, una buona squadra, e siamo riusciti a vincere la nostra Champions League. Quel giorno ti ho visto pensierosa. Se hai bisogno, sono qua. ti voglio bene .”
Prof, le andrebbe un caffè?
“Certo che sì. quando e dove (il come e il perché li lascio da parte)?”
Gli dice il luogo e l’ora e si inizia a preparare. La passa a prendere lui, tanto “è sulla strada”.
Sono seduti al tavolino del bar, in un dehor davanti a una piazza semi-deserta. Ciò d’estate è strano, persino in un paese così sperduto tra le valli cuneesi.
«Prof, ho paura che mi… che mi possa giudicare.»
«Lo sai che io non giudico. Mai.»
«È che… ho una cosa… qua dentro di me… cioè…»
«Sei incinta.»
«Come fa a saperlo?»
«Be’, non ci va una scienza. Si legge dai tuoi occhi.»
Il prof sorride. Per lui i ragazzi non sono mai stati un segreto. Gli studenti sono sempre stati uguali. Lui stesso, all’epoca, era così.
Nonostante le canzoni, le ideologie, le religioni, le tecnologie, gli uomini restano i medesimi.
Secondo lui, non è vero che il Signore ci ha fatti e poi ha buttato lo stampo. Dio ha fatto tutti con lo stesso stampo, ma essendo Egli l’Uomo più astuto dell’Eternità, si è inventato un piccolo trucco, osservando i cuochi: essi cucinano lo stesso piatto, eppure lo presentano in modo diverso, lo compongono in modo differente. Analizzando ciò, ha deciso che doveva utilizzare lo stesso stampo per l’anima, mentre per il resto si doveva avvalere della propria fantasia. Il professore, quando parla del Creatore, dà questa definizione: “Dio è il più grande Maestro di teatro che esista. Se ognuno di noi è a sua immagine e somiglianza, dev’essere stato Lui stesso il primo imitatore di sé.”
«Cos’hanno i miei occhi?»
«Hai lo sguardo di chi è madre.»
«E, se posso essere curiosa, qual è la differenza dagli altri tipi?»
«Semplice: sono lucidi, brillano, come dei diamanti, oppure degli Swarovski. Ecco, gli occhi delle donne possono essere definiti così: sono dei brutti anatroccoli che con il tempo, con l’esperienza e la maternità diventano dei cigni splendenti.»
«Cazzo…»
«Debora!»
«Mi scusi, ma mi pare di trovarmi davanti a un poeta.»
«Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna che mi sta dinanzi.»
Deby sorride. Quell’uomo è totalmente innamorato del Sommo Poeta, Dante Alighieri.
«Be’, è lei che mi stupisce, prof. Non la facevo così intellettuale e pensieroso.»
«Mi attraggono questi argomenti e temi che al giorno d’oggi non vengono più trattati: Dio, il senso della vita, l’amore, la morte. Ci hai mai pensato? Ne “La morte” si può leggere la parola “amore”.»
La ragazza rimane a bocca aperta. Scuote la testa. No, non ci aveva mai pensato.
«Senti,» continua il professore: «Sapendo ciò che dovevi dirmi, a casa ho deciso che era ora di liberarmi di una cosa che avevo scritto pensando a mia madre. Leggila. Spero ti sia d’aiuto e sappi che per qualunque cosa io ci sono.»
Si alza in piedi e dalla tasca dei jeans sfila un foglio piegato in quattro parti perfettamente regolari. La appoggia sul tavolo, lasciando anche i due euro al cameriere che passa di lì. Debora sorride e ne ha timore. Ringrazia e se la infila nella borsetta.
Si alza anche lei e si avviano verso l’automobile.
Si dirige verso la sua stanza, senza nemmeno cercare di capire ciò che la madre le sta dicendo.
Si sdraia sul letto e apre la lettera. La legge una volta e si mette a piangere e la ricomincia una seconda e una terza e una quarta e ogni volta piange sempre più. Dopo la decima volta che la rilegge la comincia a recitare a memoria, parola per parola, soffermandosi su quelle che la colpiscono di più:
Non mi sembra giusto che tu prenda le tue decisioni da sola. Non mi sembra giusto che tutta la mia vita o morte sia decisa solamente da te.
Avrai fatto un errore. Ma un errore serve a crescere, non a dimenticare.
Sono arrabbiato con te.
Con i miei calci cerco di farti male per farti bene. Le due cose non sono così lontane come si crede. Il Bene e il Male sono astrazioni che nessuno ha mai visto.
Ho sentito quella voce di uomo – una voce antipatica, brutta, fastidiosa – che ti diceva quelle parole.
Meglio buttarlo via, il verme.
Chi sarebbe costui? Mio padre? Tuo padre? Un dottore? La coscienza? Chi è?
Credo che tuo figlio dovrebbe aver diritto a sapere chi è la persona che ti ha convinto a fare quest’omicidio.
Da quando hai preso quella decisione, i bambini non mi salutano più. Mi sento solo. Mi sento colpevole.
E invece tu non senti niente, eccetto i calci che ti tiro per dirti che ti amo anche nell’odio che provo.
È che mi fa male pensare che non potrò fare tante cose con te. Mi piacerebbe piangere, ridere, litigare, mandarti a quel paese e poi chiederti scusa e abbracciarti e dirti che ti voglio bene e confessarti di avere una storia d’amore.
E poi farti diventare nonna, averti vicina al matrimonio, sognarti la notte e vederti di giorno, esserti accanto negli ultimi giorni di vita.
Ci sono un sacco di cose che una madre e un figlio possono fare insieme, ma tu non te ne rendi conto.
Tu, sempre il centro di tutto.
Ti amo anche nel tuo egoismo cronico.
Nel tuo egoismo di ragazza diciassettenne che ha capito di aver “fatto un casino”.
Resto ancora fermo un po’, che fa male sentire il tuo cuore battere allo stesso tempo del mio.
Fa male l’amore. Fa male la morte. E poi sarei io il verme?
Occupo lo spazio in cui posso stare, sanguino il sanguinabile e odio l’amabile.
È che mi farebbe male non essere più Figlio. Mi farebbe male non vederti più come Madre.”


Stefano Devalle

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