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Non siamo guerrieri: preferiamo l'accoglienza.

Un recente spot ci invita a sentirci tutti guerrieri, il genere di messaggio che punta all’inconscio e un po’ ancestrale passato dell’uomo. Sicuri di vedere la vita come una guerra?


La parola guerriero è probabilmente una delle prime a diffondersi nelle società indoeuropee. Ma abbiamo davvero bisogno di dirci guerrieri? La domanda non è banale, da quello che diciamo di essere, che vorremmo o aspiriamo ad essere, si delinea la nostra lettura della vita.

Cosa comporta guardare la vita come a una guerra? Innanzitutto leggere le relazioni in forma di battaglia, o nella migliore delle ipotesi di competizione. Ma questa impostazione ci nasconde l’integralità dell’altro, imprigionandolo nel ruolo del nemico al più dell’ostacolo. Al contrario dovremmo essere mossi dalla nostalgia dell’altro come amico, prima ancora che alleato, come compagno di strada. Perché invece di guardare alla vita come una guerra non la pensiamo come un festa?

Potremmo sostituire allora alla competizione la cooperazione, la solidarietà. Il risultato potrebbe essere addirittura devastante: scopriremo infatti così che molte delle mete che pensiamo di conquistare attraverso la metafora della lotta sono invece edifici da costruire attraverso la metafora della collaborazione. Se, come vorrebbero questi pubblicitari, scegliamo d’essere dei guerrieri il primo risultato sarà che saremo più soli. A qualcuno infatti dovremo dare la casacca del nemico e collocarlo dall’altro lato del fronte. Essere più soli ci fa essere anche più tristi. Perché la gioia si moltiplica nella condivisione autentica, materiale o spirituale che sia.

Se invece di essere guerrieri fossimo pacificatori? Se invece della lotta scegliessimo l’accoglienza e la comprensione dell’altro? Perderemmo il fascino antico della guerra, che è “bella anche se fa male” come canta De Gregori, ma avremmo in cambio il profondo senso della pace e della letizia. E non è forse questo un elemento della propaganda abortista? La mamma guerriera in contrasto con il figlio che porta in grembo? Se avessimo invece mamme accoglienti, persone accoglienti, comunità accoglienti avremmo allora la chiave per disinnescare la più grande arma di distruzione di massa che l’umanità conosca, l’aborto.

La metafora della lotta e della guerra per quanto affascinante non ci gratifica, non ci rappresenta. Non siamo guerrieri e non per questo siamo meno coraggiosi. Al valore marziale preferiamo la virtù evangelica, alla solitudine della vittoria preferiamo la compagnia della festa, alla forza dello scontro preferiamo la gioia della condivisione.

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