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Il protocollo Liverpool, la via britannica all’eutanasia.

Definito senza mezzi termini come un sistema per tagliare i costi della sanità pubblica, dopo scandali e casi di malasanità, il trattamento britannico per i pazienti in stato terminale continua ad alimentare le polemiche. 


Ufficialmente, il suo nome per esteso è ‘Liverpool Care Pathway for the Dying Patient‘, conosciuto ai più per il più corto e forse tranquillizzante ‘Liverpool Care Pathway’ (Lcp), è il controverso programma per il fine-vita della sanità pubblica del Regno Unito. Dopo essersi macchiato di numerosi casi di malasanità ed aver alimentato per anni le polemiche, su richiesta del ministro della salute Norman Lamb, una relazione indipendente recentemente pubblicata, ha suggerito, –con vaga ironia- di lasciar lentamente morire il programma per il fine-vita nei prossimi 6-12 mesi, almeno per quanto riguarda l’Inghilterra. Dopotutto, come è stato rilevato, le ragioni non mancano.

Infatti, numerosi sono stati i casi diventati oggetto di cronaca di pazienti inseriti nel mortifero protocollo e deceduti, senza che né a loro né ai familiari fosse stato chiesto il consenso. E molti di più, -fino a 60mila ogni anno- sono coloro che hanno condiviso –e continuano a condividere- la stessa sorte nel silenzio generale. Nella fattispecie, la mancanza di comunicazione –involontaria, si suppone- tra lo staff medico ed i propri pazienti è stata esplicitamente citata nel rapporto, come uno dei problemi cardine del protocollo. In alcuni casi, è stato riportato, l’abuso del Lcp –o la mancanza di comunicazione-, è arrivato sino all’inclusione nel trattamento di pazienti coscienti, il cui stato non era assolutamente terminale.

Dubbi di tipo scientifico sono stati inoltre sollevati, sulla possibilità di poter determinare la data della morte imminente di un paziente. Mentre una stima relativamente precisa è possibile per i malati di cancro, in altre circostanze diventa, come è stato definito dal professor Patrick Pullicino, “nella migliore eventualità, un educato tiro ad indovinare”, che non a caso, si è spesso rivelato tale. L’impossibilità di definire con certezza quando il malato è nelle sue ultime ore di vita, va da sé, rende quantomeno controverso l’utilizzo del trattamento, che consiste nella sedazione e nella sospensione di medicine, alimentazione ed idratazione. Numerosi sono stati infatti i casi in cui, pazienti la cui dipartita era stata definita come quanto più prossima, si sono trovati lasciati morire per giorni. Emblematico è il caso di Andy Flanagan, portato agli onori della cronaca, dopo che giudicato morente ed irreversibile in seguito ad un infarto, è stato sottratto dalla famiglia al Lpc, riuscendo poi a riprendersi.

Tra le altre cose, il rapporto ha esplicitamente fatto riferimento al sistema di incentivi economici di cui godevano gli ospedali per ricorrere a tale protocollo. La netta sensazione, emersa più volte già in passato, è che spesso Lcp, venga utilizzato senza eccessivo discernimento, al solo scopo di incassare i contributi – motivo per cui, nella relazione se ne consiglia l’abolizione, negando naturalmente che ciò sia mai accaduto.

In conclusione, se è probabile che il Liverpool Care Pathway finisca presto per venir cestinato, alla luce degli scandali degli ultimi anni ed in particolare, delle gravi mancanze evidenziate dal rapporto, ci si illude se si spera in un cambio di politica per quanto riguarda il fine-vita nel Regno Unito. Un sistema come quello del protocollo Liverpool, definito da alcuni medici ed esperti, come un comodo metodo per tagliare i costi e liberare i letti, verrà verosimilmente sostituito da un altro sistema, forse più discreto, ma altrettanto intrinsecamente sprezzante della dignità della vita umana.



Nicola Bocola

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