L’ennesimo attacco per disapplicare il divieto di diagnosi preimpianto. Se un bambino è malato non è giusto che nasca. Sicuri che vogliamo davvero questo?
In Italia le leggi non sono tutte uguali. Capita così che alcune godano del rango di dogma, altre invece sono sempre esposte all’intervento creativo dei giudici. Se si mette in discussione la legge 194 si è presto additati dalle femministe di mezza nazione, al contrario cercare di modificare la legge 40 è diventato uno sport nazionale. L’ennesima occasione è stata la recente pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che pur essendo vincolante per gli Stati e non per i singoli cittadini, è stata presto applicata al caso concreto dal tribunale civile di Roma.Il giudice romano ha così dichiarato che il divieto di diagnosi preimpianto che la norma prevede per evitare discriminazioni nella scelta degli embrioni, va disapplicato esattamente per consentire una scelta discriminante tra gli embrioni. Di fatto il giudice non esista a prescrivere l’impianto dei soli “embrioni sani o portatori sani rispetto alla patologia da cui sono affette le parti”. Cosa vuol dire? Semplicemente che se un bambino è malato non merita di essere impiantato nell’utero materno e di nascere.
Una simile scelta si chiama eugenetica, e il divieto previsto dalla norma serviva proprio a impedire la discriminazione degli individui malati. Perché l’embrione è esattamente “uno di noi”, un essere umano in tutto e per tutto, e come tale merita la stessa tutela e dignità riservata a qualsiasi essere umano. Ad affermarlo non è una visione di parte ma il Comitato Nazionale di Bioetica che già dal 1996 si è pronunciato sullo statuto giuridico dell’embrione. La tutelare l’embrione, l’essere umano nello stato embrionale, significa anche salvaguardarlo da possibili discriminazioni, esattamente l’opposto di quello che ha fatto il tribunale romano.
La Corte europea, nell’ottobre 2012, aveva valutato il divieto di diagnosi preimpianto contenuto legge 40 incoerente con la possibilità, prevista dal nostro ordinamento, di effettuare l’aborto terapeutico. In questo modo la Corte di Strasburgo tradisce però la sua visione di “aborto a richiesta”, come se l’aborto vada effettuato a seguito di una semplice richiesta della donna. Al contrario l’aborto terapeutico è consentito solo se il proseguimento della gravidanza di un bambino gravemente malato mette a rischio la salute della mamma. Di fatto tra divieto di diagnosi preimpianto e aborto terapeutico, solo nel caso di pericolo per la salute della donna, non c’è affatto incoerenza.
I Radicali esultano ipotizzando che la sentenza cancelli per sempre il divieto. In realtà la sentenza non ha valore generale, perché ciò avvenga è necessario l'intervento della Corte Costituzionale, chiamata a giudicare direttamente la leggi. Filippo Vari, docente di Diritto costituzionale, interpellato da Avvenire spiega: “In ipotesi di contrasto tra una norma interna e la Cedu, il giudice è tenuto a sospendere il giudizio e rimettere la questione alla Corte Costituzionale, non vi sono altre strade. [...] La Consulta è stata sempre chiara e decisa nel ribadire la propria competenza esclusiva in merito”.
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