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Contro l’aborto dei figli down o con spina bifida: la storia di Greta.

Una mamma che ha scelto di rifiutare l'amniocentesi e di accettare sua figlia nonostante il rischio della sindrome di down.


Tante volte abbiamo ricordato come l’aborto sia spesso uno strumento per discriminare i più deboli e soprattutto i bambini malati. Oggi questo nostro allarme si fa invece testimonianza grazie alla forza di chi ha saputo dire di no alla logica del “figlio perfetto” accettando la vita, in tutto e per tutto, per se e per i propri figli, anche se malati o disabili. Non c’è nulla di più vero ed emozionante di un autentico sì alla vita vissuto ogni giorno, quotidianamente.

A parlare con noi è Greta, la mamma delle piccola Esmeralda, l’abbiamo contattata su Facebook dove ha creato una pagina seguitissima dal titolo molto significativo: “Contro l’aborto dei feti down o con spina bifida”. Le sue parole ci hanno riempito di nuovo entusiasmo… tanto che non possiamo non condividerla con voi, giovani prolife, sperando che anche voi ne possiate trarre una nuova forza.

Greta ci racconta che “tutto è iniziato durante gli ultimi giorni dell’anno 2010 e i primi del 2011, con la conferma ufficiale della mia gravidanza (dopo quasi tre anni di relazione) che, anche se in un momento della vita che molti definirebbero inopportuno, dal momento che io avevo diciotto anni, studiavo all’Università, e il padre appena sedici. Dopo i primi momenti di paure ed incertezze, è stata subito ben accolta […] Per un po’ di tempo sono stata una di loro, una di quelle ragazze che aiutate, che aiutiamo, ciascuno a suo modo; non sapevo come sarebbe andata la mia vita, non sapevo se mi avessero separata dal mio ragazzo, non sapevo se avessi perso i miei genitori, sempre così critici verso “certe situazioni”, non sapevo se avessi avuto come mia nuova casa una casa-famiglia”.

Poi arriva il momento di parlare con la famiglia, Greta lo fa “a fine sessione, dopo sette esami e forte di questa conquista. Dopo i primi timori, la mia gravidanza è stata accolta bene anche se pian piano nel tempo. Nei giorni in cui mi sentivo meglio andavo a lezione e così non sono rimasta indietro”. Quando poi arriva il giorno della prima ecografia... “un’emozione che non si scorda neanche quando in seguito si avrà il proprio figlio fra le braccia. Sentire la vita nella sua forma più perfetta dentro di sé è il privilegio assoluto di noi donne, che non scambierei con nessun altra cosa al mondo! Tutto sembrava procedere bene”.

Poi arriva il momento di fare degli esami medici e la situazione cambia. “Il medico però, mi aveva consigliato alcuni esami prenatali e io all’epoca non sapevo di cosa si trattasse. [...] Dopo essermi informata per bene, ho provato un senso di rabbia, di tradimento, perché il medico senza neanche darmi spiegazioni aveva deciso che io avrei dovuto fare quegli esami, pensando che queste procedure sono ragionevoli per tutti, ancora di più per due ragazzini che non possono “rovinarsi la vita” con un figlio “malato”, secondo il linguaggio comune”.

Ormai, però, gli esami erano stati prenotati... “ e l’idea di vedere di nuovo mia figlia attraverso l’ecografia mi ha fatto decidere di andare avanti, anche se già con il padre di mia figlia avevamo stabilito che qualunque fosse stato il risultato avremo rifiutato ogni esame invasivo. Adesso so che questa esperienza doveva assolutamente esserci nella mia vita, anche solo per produrre qualcosa di piccolissimo, ma di buono, come il mio piccolo spazio di ascolto e per testimoniare a favore della vita”.

Arrivano così i risultati: “sono entrata nella stanza del genetista, una stanza gelida, disumana. Ho provato cosa vuol dire maneggiare semplici carte, dopo aver detto il proprio nome e cognome e sentirsi dire con freddezza, come se davanti a loro ci fosse un numero, non un essere umano, “ne dobbiamo parlare”. Parole che, in tutta la loro formale chiarezza ed immediatezza, non si dimenticano. Oltre al genetista c’era una collega, che dava le spalle a lui e a me. Lei, una donna, una donna come me, forse una mamma, chi lo sa, non ha detto una sola parola, non un cenno, non uno sguardo”.

Il ricordo di Greta ci rende partecipi di quanto possa essere disumanizzante il confronto con l’indifferrenza degli altri, specialmente di chi dovrebbe essere lì per aiutarti, per la tua salute e per quella di tuo figlio: “Io non esistevo, mia figlia non esisteva, non c’era nessun paziente da definire essere umano, perché non c’era nessuna umanità in quella stanza. Lui mi guardò e mi disse con lo stesso tono di uno che sta sbrigando una normale, e quasi noiosa, pratica, che il passo successivo sarebbe stato l’amniocentesi. Io gli risposi con fermezza che non era la mia volontà. Lui se ne lavò le mani rispondendo che avrebbe preferito che fosse stato presente anche il padre di mia figlia, ma più per avere un’ulteriore firma che per altro. Comunque per lui andava bene anche così, del resto per legge è solo la madre che conta in questi casi. Ho messo la mia firma, senza tremare, ma con tutto l’amore di una madre che farebbe di tutto per difendere il figlio che le cresce in grembo”.

L’appuntamento è ora con il ginecologo, a cui Greta consegna i risultati degli esami “un test positivo per la Sindrome di Down con la percentuale di 1:110, in sostanza come se fossi una donna di 45 anni! Proprio quel giorno era il 21 marzo, giornata mondiale per la Sindrome di Down. Proprio al ritorno a casa, mio padre mi consegnò una collana con un ciondolo a croce, dicendo di averlo trovato sul pavimento a lavoro. Certe “risposte” di Qualcuno a volte sono proprio immediate! Arrivò anche il giorno della visita dal ginecologo.”

“Esibisco come al solito la mia cartellina verde, un colore neutro perché ancora non sapevamo il sesso del bambino, con tutti gli esami eseguiti, compreso il risultato del tritest. Il medico nel vederlo mi disse subito con serenità: “dobbiamo fare l’amioncentesi”. Io gli risposi che avevo già rifiutato. Lui con sguardo incredulo mi chiese il perché. Io e il padre di mia figlia abbiamo risposto che avremo accettato nostra figlia così com’era. La sua unica domanda è stata: “e se nasce un bimbo down (attenzione, ha detto “bimbo” non grumo di cellule!) che si fa?”. Il padre di mia figlia per niente intimorito rispose che sarebbe stato ugualmente nostro figlio e che anzi, se fosse stato down avrebbe avuto bisogno di un aiuto maggiore, non di essere eliminato. Il medico in silenzio scrisse sulla cartella che io avevo rifiutato l’amniocentesi e declinava ogni sua responsabilità”.

Arriva quindi il giorno del parto, il 3 Settembre, alle 13.35 e a 39+3 settimane “è nata Esmeralda –che significa “speranza”- di 3.580 kg per 51 cm. Ricordo ancora cosa si prova ad uscire trionfanti dalla sala operatoria, anche se in un letto paralizzata dai polmoni in giù a causa dell’anestesia, come se fossi stata la prima donna al mondo a compiere l’impresa!. Ed effettivamente se ci pensiamo, ogni donna che mette al mondo il proprio bambino compie un’impresa unica perché ciascun essere umano è unico ed insostituibile. Per l’emozione di questi momenti non esistono parole, si può restare solo in contemplazione”.

E la vita torna a scorrere con un tesoro immenso in più.. “non contenta dei dolori della mia ferita di 15 cm mi sono attivata per studiare l’ultima materia dell’anno accademico che mi mancava e dieci giorni dopo il parto, il 13 settembre, mi sono presentata in facoltà superando ottimamente l’esame, nonostante il sonno a causa delle nottate. La mia vita dopo due anni procede ancora meravigliosamente così, tra lezioni, libri, latte e pannolini".



I rischi della genetica selvaggia.

Martina De Nicola, dalle pagine di Zenit, ci ricorda che è disumano utilizzare la diagnosi genetica prenatale per sopprimere vite nascenti.

La storia della diagnosi prenatale è una storia recente che va di pari passo con lo sviluppo della tecnologia, da una parte, e con le nuove scoperte genetiche, dall’altra. È dagli anni ’70 del XX secolo che la diagnosi prenatale si è diffusa a macchia d’olio fra il grande pubblico, permettendo a molte coppie di conoscere il corredo genetico del proprio figlio molto prima della nascita e spesso anche molto prima dell’insorgenza della malattia stessa.

Il gap tra diagnosi e terapia si è andato ampliando enormemente lasciando medici e genetisti in una condizione particolare e pericolosa: sapere, conoscere di prossime o future malattie attraverso la diagnosi senza la possibilità di curare l’individuo risultato affetto. 

Questo “sapere senza poter fare” ha di fatto sollevato numerose questioni etiche e sociali, le quali avrebbero dovuto indurre i soggetti coinvolti – medici, scienziati, genetisti, istituzioni – a porsi delle domande non solo sull’immediato ma anche sulle conseguenze future, sulle ripercussioni a medio e lungo termine che alcune pratiche potevano far emergere.

Sarebbe stato opportuno cioè invocare quel “principio di precauzione” che in altri ambiti è stato non solo evocato ma anche applicato in maniera incondizionata e che invece in ambito genetico prenatale è stato ritenuto limitante la libertà personale delle coppie e la possibilità di autodeterminazione della donna.

Tale atteggiamento, una volta assunto, avrebbe permesso di riflettere sulle conseguenze che una tecnologia diagnostica come quella genetica può avere sulla natura dell’uomo, sulla dignità che ciascun uomo possiede e sul rapporto di pari e incondizionata libertà fra esseri umani. 

Non si è capito insomma – come invece fa argutamente riflettere Hans Jonas – che il possesso di una facoltà o di un potere non significa necessariamente il suo impiego. Siamo stati vittime di quello che sempre Jonas chiama “l’inevitabilità dell’applicazione”, ossia l’idea fondamentale della nostra cultura e della nostra società che sia necessaria “una continua applicazione del suo potenziale tecnologico”.

Se ci si fosse invece fermati a riflettere sulle conseguenze che le tecniche di diagnosi prenatale, senza una risposta terapeutica, avrebbero comportato, si sarebbe forse scoperto che esse in questo modo finiscono per essere altamente discriminatorie perché differenziano i soggetti umani in relazione a delle loro caratteristiche fisiche e biologiche, creando un nuovo tipo di razzismo genetico, e riportando in auge tutti i princìpi classici dell’eugenetica passata. Avendo però, grazie alla tecnologia e allo sdoganamento di una serie di pratiche quali l’aborto, anche uno strumento di sistematica eliminazione del soggetto malato.

Leggi l'articolo completo qui.

Fonte: Martina De Nicola - ROMA, 17 Settembre 2013 (Zenit.org

Tribunale di Roma contro la legge 40.

L’ennesimo attacco per disapplicare il divieto di diagnosi preimpianto. Se un bambino è malato non è giusto che nasca. Sicuri che vogliamo davvero questo?

In Italia le leggi non sono tutte uguali. Capita così che alcune godano del rango di dogma, altre invece sono sempre esposte all’intervento creativo dei giudici. Se si mette in discussione la legge 194 si è presto additati dalle femministe di mezza nazione, al contrario cercare di modificare la legge 40 è diventato uno sport nazionale. L’ennesima occasione è stata la recente pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che pur essendo vincolante per gli Stati e non per i singoli cittadini, è stata presto applicata al caso concreto dal tribunale civile di Roma.

Il giudice romano ha così dichiarato che il divieto di diagnosi preimpianto che la norma prevede per evitare discriminazioni nella scelta degli embrioni, va disapplicato esattamente per consentire una scelta discriminante tra gli embrioni. Di fatto il giudice non esista a prescrivere l’impianto dei soli “embrioni sani o portatori sani rispetto alla patologia da cui sono affette le parti”. Cosa vuol dire? Semplicemente che se un bambino è malato non merita di essere impiantato nell’utero materno e di nascere.

Una simile scelta si chiama eugenetica, e il divieto previsto dalla norma serviva proprio a impedire la discriminazione degli individui malati. Perché l’embrione è esattamente “uno di noi”, un essere umano in tutto e per tutto, e come tale merita la stessa tutela e dignità riservata a qualsiasi essere umano. Ad affermarlo non è una visione di parte ma il Comitato Nazionale di Bioetica che già dal 1996 si è pronunciato sullo statuto giuridico dell’embrione. La tutelare l’embrione, l’essere umano nello stato embrionale, significa anche salvaguardarlo da possibili discriminazioni, esattamente l’opposto di quello che ha fatto il tribunale romano.

La Corte europea, nell’ottobre 2012, aveva valutato il divieto di diagnosi preimpianto contenuto legge 40 incoerente con la possibilità, prevista dal nostro ordinamento, di effettuare l’aborto terapeutico. In questo modo la Corte di Strasburgo tradisce però la sua visione di “aborto a richiesta”, come se l’aborto vada effettuato a seguito di una semplice richiesta della donna. Al contrario l’aborto terapeutico è consentito solo se il proseguimento della gravidanza di un bambino gravemente malato mette a rischio la salute della mamma. Di fatto tra divieto di diagnosi preimpianto e aborto terapeutico, solo nel caso di pericolo per la salute della donna, non c’è affatto incoerenza.

I Radicali esultano ipotizzando che la sentenza cancelli per sempre il divieto. In realtà la sentenza non ha valore generale, perché ciò avvenga è necessario l'intervento della Corte Costituzionale, chiamata a giudicare direttamente la leggi. Filippo Vari, docente di Diritto costituzionale, interpellato da Avvenire spiega: “In ipotesi di contrasto tra una norma interna e la Cedu, il giudice è tenuto a sospendere il giudizio e rimettere la questione alla Corte Costituzionale, non vi sono altre strade. [...] La Consulta è stata sempre chiara e decisa nel ribadire la propria competenza esclusiva in merito”.
 
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