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Da dove siamo partiti


Testimonianza del CAV di Fasano

Una notte  (erano circa le 11) avevo appena messo a letto il mio papa quando suonarono al campanello. Sulla porta un’amica che mi chiese l’orario del turno che avrei fatto l’indomani in ospedale. La domanda mi sorprese ma risposi alle ore 6 domattina perché? mi disse che voleva essere accompagnata per abortire. Tu sai bene qual è la nostra situazione, ( era veramente grave) tanto che gli inquilini cercavamo di aiutarli.
In quel momento pensai cosa devo dirle o fargli a quest’ora. vedo di convincerla durante il tragitto pensai. Improvvisamente mi ricordai della promessa che avevo fatto durante la santa Comunione. Avrei voluto compier un gesto che avrebbe fatto contento nostro Signore. E cosi le dissi ora vengo giù da te e ne parliamo. Mi sentiti sola e impreparata. Poi con la memoria mi aggrappai e tutti i volontari dei vari Movimenti  per la vita che avevo conosciuto. Mi torno in mente una frase di Vittoria  Quarenghi “Ogni vita ha diritto a nascere” e scomparve in me ogni ostacolo.                          In casa trovai il marito che non mi degnò di uno sguardo, continuando a vedere se riusciva a far accendere un televisore che gli avevano regalato, i bambini piccoli che chiedevano cosa mangiare, la mamma di lei Caterina che piangeva sulla sorte della figlia. ricordo in quel momento di ave detto solo due parole. Chiedimi di darti la mia vita in cambio di quella del bambino che porti in grembo e io sono pronta a dartela, ma non mi chiedere di essere complice del tuo delitto perché non voglio e non posso farlo.  Io ti prometto che ti aiuterò in tutti i sensi se deciderai di farlo nascere.
Il marito a quel punto si alzò chiamo a se la moglie e si allontanarono, dopo poco ritornarono e sedutisi accanto mi dissero “ se tu ci aiuterai come promesso teniamo il bambino.
Quella notte la passai senza chiudere occhi, meditavo su come era stato semplice salvare quella vita, senza arte ne parte si dice da noi per sottolineare che non sempre la professionalità o l’esperienza sono determinanti.
Per nove mesi ho seguito e accompagnato la mamma. e insieme ad altri altre mamma che avrebbero abortito.  Una mattina entravo in ospedale per prendere servizio e trovo M. il marito che mi accompagnò al capezzale della moglie che aveva partorito durante la notte e sapendo in quale situazione famigliare io mi trovassi non vennero a chiamarmi. La piccola era bellissima e ricciolina rosea e pesava 3,kg e mezzo.
R. la mamma mi disse per la prima volta grazie. Vollero che la piccola avesse il mio nome, subito dissi che io avevo fatto una promessa a Gesù Eucarestia quella mattina quindi era a Lui che dovevano il nome della bambina, così mi venne in mente di prendere la parte centrale dell’Eucarestia e trasformarlo in CARES , il nome piacque a tutti, e in particolare a nonna Caterina che si aspettava che la chiamassero come lei. Non mancarono momenti di drammatica angoscia per le condizioni della piccola , tanto che  chiedemmo al cappellano che la venisse Battezzata in casa.  Tante volte la piccola veniva portata a Bari nell’ospedale pediatrico per delle convulsioni.                                                                                             
Cares festeggia il suo onomastico il giorno del CORPUIS DOMINI.  R. ha avuto un’altra bambina dopo Cares ed erano 4° distanza di due anni tra loro. NEL 2014  ricevo una visita era Cares con un fagottino in mano, era appena scesa dall’ospedale e nonostante ormai lontani da casa mia e aveva voluto che incontrassimo la sua bambina.
Tante giovane mamme abbiamo incontrato insieme ad altre persone che volontariamente si erano trovati a rispondere a domande di aiuto per una maternità indesiderata. 
La più importante fu quella di Don Angelo un medico che ci mise a disposizione il suo ambulatorio nei giorni in cui lui non lavorava. Elia la moglie liberò una stanza in casa per accogliere quelle ragazze che decidevano per la vita.  Si ricevevano richieste di ascolto anche da altri paesi. Così è partito il nostro centro di aiuto alla vita 1 in Puglia, e poi ne sono sorti altri. Ostuni. Taranto Lecce, altri ancora. 
Viva la Vita.


Creati perché la donna tornasse a sorridere



Il racconto di una vita da volontaria CAV 

Sono ormai trentotto anni che faccio parte del Movimento per la vita, dal momento della mia conversione, avvenuta nel 1976 e partecipai ad un incontro, a Firenze, dove si relazionava sull’operato del primo Centro di Aiuto alla Vita (CAV), dopo un anno dalla sua nascita.
La conoscenza di Dio fece sorgere in me una serie di domande: chi sono? Perché Dio ha voluto che esistessi? A che serve la mia vita? Come l’ho vissuta prima d’ora?
Dopo molte riflessioni, ho capito che la vita è un grande dono, ho capito che questo dono ricevuto dovevo a mia volta ridonarlo, ma a chi? Al mio prossimo, a colui che mi sta accanto, al fratello che ogni giorno incontravo; capii, quindi, che dovevo cambiare il mio modo di essere ed impegnarmi in qualcosa che fosse degno della mia esistenza.
Ero insegnante, ma come svolgevo la mia professione? Il mio prossimo erano i giovani studenti e i miei colleghi, dovevo innanzitutto rivolgere lo sguardo a loro, guardarli e amarli come persone aventi una grande dignità con tutti i loro pregi e difetti. Ma Dio non voleva solo questo e si manifestò subito la sua volontà, dovevo andare oltre, interessarmi della vita di tutti e, per una serie di circostanze, della vita nascente; comunicare agli altri che la vita con le sue gioie e i suoi dolori, doveva essere spesa per chi, creato ma non ancora nato, aveva il diritto di viverla.
In tutti questi anni ci sono stati momenti di gioia e di grande dolore, specialmente quando ci troviamo di fronte ad una madre che decide di sacrificare la creatura che porta in grembo e non riesci a persuaderla a portare avanti la gravidanza. Ecco il compito difficile al quale siamo chiamati, se operiamo nei Cav.
Ma anche momenti di grande gioia.
Qualche decennio fa la donna in attesa di un figlio era guardata  con spontanea ammirazione, con compiacimento; il senso di ciò che avveniva in lei era colto da tutti generalmente come un evento naturale e positivo. Nella società attuale è venuta meno questa evidenza, assieme ad una perdita di valori. La gravidanza può essere considerata positiva o negativa a seconda di come viene vissuta o percepita dalla coppia o dalla donna.
Per esperienza vissuta da anni l’operatrice del CAV sa che una donna difficilmente trova nel contesto della società delle valutazioni positive e quindi sostegno. E’ perciò compito dell’operatrice cercare di sollecitare risposte personali, vincere le paure e dar spazio alle speranze, affinchè venga riconosciuta all’evento la connotazione positiva. La donna vive un momento di tempesta emozionale, talora di crisi, anche nel caso in cui la gravidanza è stata accolta favorevolmente. La donna deve rimettere in discussione se stessa, la sua identità, essa vive l’evento con una ambivalenza in cui, a momenti di gioia, di attesa fiduciosa, di serenità, si alternano momenti in cui rimetterebbe tutto in discussione.
La donna amata non abortisce, infatti spesso le cause principali degli aborti sono la mancanza di aiuto, di collaborazione, di accoglienza dell’uomo, l’abbandono, il disinteresse. 
La donna ha bisogno di essere ascoltata e compresa. Deve avvertire che i suoi problemi stanno diventando anche problemi dell’operatrice. Il silenzio in certe occasioni è significativo. Lo scopo principale è quello di capire veramente la situazione della donna. Il Cav si pone accanto alla donna, rispetta e accoglie la donna, qualunque cosa ella decida.
Francesca, Alessia, Lavinia, Teresa,…. (nomi di fantasia) hanno saputo dire sì alla vita e sono tornate con il loro bambino felici, sorridenti, fiduciose. E in quel sorriso c’era il loro ringraziamento.


GIULIANA ZOPPIS

Nostra figlia con sindrome di down: una spirale d'amore

Flickr/ Giuseppe Moscato

Riportiamo la bellissima testimonianza di Anna, mamma di sei figli, di cui l'ultima con sindrome di Down.


Era il 21 novembre 2012, il giorno della Madonna della salute, festa a me cara. Ero molto felice: nel mio grembo si stava formando una nuova vita, la nostra famiglia sarebbe cresciuta!
Sono andata a fare l’ecografia del terzo mese con il cuore in festa, serena, tranquilla. Ma il viso della dottoressa che mi percorreva la pancia con la sonda ecografica mi ha spaventata: lei era tesa, preoccupata. Mi ha detto che qualcosa non andava, che appariva un’immagine anomala che poteva associarsi a molte patologie, anche gravi….
Ho subito chiamato mio marito, che è corso veloce da me, e, con la sua mano stretta alla mia, abbiamo ripetuto nuovamente l’ecografia all’ospedale, dove hanno confermato l’evidenza di una gravidanza con problemi.
Non è facile tradurre a parole le emozioni che si provano in simili circostanze…. gelo, paura, angoscia, totale smarrimento. Ma eravamo assieme, mio marito e io.
Ci siamo tenuti stretti le mani e uniti i cuori. E siamo andati avanti.
Ci siamo sottoposti alle indagini suggerite dai medici. L’attesa dei risultati è stata particolarmente dolorosa, perché non sapevamo a cosa andavamo incontro.
Ricordiamo con tenerezza il momento in cui ci hanno comunicato la diagnosi.
La dottoressa era molto dispiaciuta nel comunicarci che la nostra bambina aveva la Sindrome di Down, ma ricordo che noi, usciti in corridoio, ci siamo abbracciati stretti e ci siamo sentiti fortunati che avesse ‘solo’ la sindrome di Down.
Ci sono famiglie che affrontano con coraggio disabilità ben più gravi. A noi veniva chiesto di accogliere lei e ci siamo sentiti di dire “Sì”.
A rafforzare questo “Sì” sono stati i nostri figli…
E' stato commovente il momento in cui li abbiamo radunati attorno al tavolo e abbiamo spiegato che la loro sorellina sarebbe stata diversa, che avrebbe imparato tante cose, ma più lentamente.
Hanno fatto a gara nell’immaginare cosa ognuno di loro le avrebbe insegnato! Che dono grande hanno i bambini!
Attraverso i loro occhi si può guardare senza paura la realtà...
Con il passare dei giorni, tuttavia, in me, mamma, hanno cominciato ad alternarsi momenti di fiducia e momenti di sconforto, di inadeguatezza, di paura. Sono giunta a pensare se sarei stata capace di volerle bene, se avrei avuto il coraggio di passeggiare con lei lungo i corridoi dell’ospedale, se mi sarebbe piaciuto il suo visino diverso...
Mi chiedevo cosa sarebbe stata in grado di fare, che vita avrebbe avuto...
Pensieri scomodi da vivere e da riportare.
Nostra figlia è nata un po' prima del previsto.
Nel suo visino così piccolo, i segni della sua diversità a suscitare una tenerezza infinita in noi e nel personale medico che ci ha assistiti...
Ancora una volta a darci la carica sono stati i nostri figli. Sono arrivati in camera correndo, se la sono contesa, ripetevano: “Mamma, è bellissima”, “Mamma, com'è bella!". L'hanno portata a turno in giro per i corridoi, tutti fieri. Le persone che ci vogliono bene, i nostri amici, la nostra comunità, hanno accolto la nostra bimba con tanto affetto. Diciamo sempre che la sua nascita ha innescato una spirale d'amore, perché ci ha fatto sentire tanto amati. Ora la nostra piccola sta crescendo, sta imparando a fare tante piccole cose, lentamente, con i suoi tempi. Quando la vediamo fare qualcosa di nuovo, è una festa! Con lei ogni piccolo traguardo sembra avere più valore, perché frutto di più fatica...
Una sera di qualche mese fa, osservavo la nebbia che ricopriva la pianura, mentre in collina splendeva la luna e il cielo era punteggiato di stelle. Ho pensato che in situazioni difficili della vita ci sentiamo smarriti, come se brancolassimo nella nebbia, e non pensiamo che solo qualche metro più su ci sono le stelle e la luna e il sereno... Basta fidarsi, basta guardare un po' in su e avere fede.

Anna Fusina

Le case di accoglienza: una, dieci, cento storie da raccontare






Mariantonietta ci racconta la sua esperienza di Servizio Civile presso la Casa di Accoglienza “Madre Teresa di Calcutta” di Viterbo.

Sono arrivata in Casa di Accoglienza un anno fa, avevo tanto sentito parlare negli ultimi anni di Case di Accoglienza e di Centri di Aiuto alla Vita. Tante testimonianze che nel corso degli anni mi hanno toccato il cuore, compreso quella di una mia cara amica per la Vita, con cui ho iniziato il mio servizio alla Vita 7 anni fa e che, ogni volta che riascolto, è un’emozione: senti la Vita, quel valore che va oltre la morte, oltre chi tenta di dissuaderti dal tuo compito di madre, quello di compiere il gesto di amore più grande, dare la Vita ad un figlio.
Ogni madre dovrebbe essere messa nelle condizioni di dare e accogliere la Vita ed è quello che le aiutiamo a fare con il Centro di Aiuto alla Vita e con la Casa di Accoglienza. Cercare di rimuovere tutti gli ostacoli che spesso portano le donne a dire no a un figlio, per paura, per solitudine, per problemi economici, per “ricatti” da parte della famiglia, e per tantissimi altri motivi, che non bastano a giustificare l’aborto. Non è certo un compito facile, ma la gioia più grande è poi vedere queste donne, scoprire la maternità, vedere nei loro occhi, la serenità, la gioia, la voglia di dire quel “si”, che dal primo istante ha cambiato le loro vite, anche prima che loro stesse potessero rendersene conto.                                                                    
Quando ho iniziato un anno fa questo servizio, per me era tutto nuovo, non avevo mai fatto un colloquio e ogni giorno per me continua ad essere una meravigliosa scoperta, sento che ho ancora moltissimo da imparare. Da Maria, responsabile della Casa di Accoglienza nonché Operatrice locale di progetto, e dalla sua famiglia sto imparando cosa significhi essere una Famiglia per la Vita, cosa significa amare gratuitamente senza volere e avere nulla in cambio. In questo anno ho toccato con mano cosa vogliano dire Accoglienza, Gratitudine, Volontariato, Rispetto.
Vivere la quotidianità nella Casa mi ha permesso di capire tutto il lavoro che c’è dietro e che molti nemmeno immaginano. La speranza più grande è non sentire più parole come quelle ascoltate alcuni giorni fa: “Ora  come ora,  più che mai sono pro-aborto” oppure: “…e perché non ha abortito?”. L’aborto non è una soluzione è l’inizio di un problema.

Ricorderò sempre con affetto: Gabriela e Giany e il saluto di Giany dall’aereo, quando è partito con la sua mamma. Sono state le prime persone che ho conosciuto in Casa di Accoglienza e nella mia camera ho ancora il “bentornata” che mi aveva scritto qualche mese prima e un ciondolo realizzato da lui. Porterò con me Gein e Sofia con i suoi “sorrisoni”,  Lucia, Francesco e il piccolo Samuele che non abbiamo conosciuto, Dalene con Marlene di cui non abbiamo più avuto notizie, Suada e la sua situazione di post-aborto, Magda, con un’accoglienza di una sola notte, ma che comunque ci ha lasciato dei pensieri molto belli sull’ opera di accoglienza che si sta portando avanti. Ricorderò sempre anche la storia di Malwina: una ragazza non udente e di Luca, suo figlio, che per me è stata un’esperienza nuova, dove l’iniziale paura di non riuscire a comunicare con questa donna si è trasformata in capacità di comunicare oltre la disabilità. E poi, Elodie, una ragazza molto timida, che dice di aver trovato in me una sorella, ma che anche lei come tutte le altre mamme ha bisogno di “fermezza e dolcezza” come è solita dire e fare Maria. E, ancora, Silvia, con tutte le sue problematiche... Ognuna di queste donne è diversa dall’altra, ognuna di loro ha una storia alle spalle, ognuna di loro ha un tesoro prezioso, di cui spesso nemmeno si rende conto e, nella sua unicità, ogni storia ti trasmette tanto. 
Ha detto una mamma:”io questo posto non lo conoscevo, dovrebbero parlarne di più, voi fate tanto, questo è un posto dove dal dolore, le mamme possono ritrovare la forza con la gioia”. Ogni giorno è un giorno nuovo per le mamme e i bambini, che giorno dopo giorno fanno dei passi in avanti rispetto alla loro situazione di partenza per il raggiungimento del loro progetto ed anche per me è stato importante, perché in questo anno ho imparato tanto.

Le belle storie finiscono sempre con un grazie. Un grazie che va ridonato a coloro che ci hanno regalato tanto. Per questo, al termine della mia esperienza di Servizio Civile, mi restano numerosi “grazie”. Rispetto. Per questo, un grazie speciale a Maria, che nella quotidianità mi è sempre vicina e mi sta insegnando a crescere giorno dopo giorno al Servizio della Vita. Lei dice spesso, “le cose capitano a chi le fa, a tutti può capitare di sbagliare, importante è parlarne per poi trovare soluzioni positive”. Grazie a lei sono arrivata a sostenere i colloqui con le donne in difficoltà in autonomia. A volte la paura di poter sbagliare mi frena e lei mi ha dato fiducia, rafforzando la mia autostima. Mi piace donare un sorriso a tutte le persone che vengono, con la speranza che possa scaldare il loro cuore e far arrivare l’Amore per la Vita che mi porta ad essere qui ad occuparmi di loro. Grazie per il laboratorio di pedagogia, è un modo per trasmettere quello che ho studiato alle mamme e di mettermi alla prova sui temi inerenti il parto e la cura dei bambini. Il segreto di tutto è fare con amore quello che si fa.
Le storie, i sorrisi, i bambini sono le ragioni che stanno dietro il Volontariato per la vita e in questo caso al Servizio Civile. Un bagaglio indistruttibile e prezioso che ti viene consegnato e che ti fa crescere giorno dopo giorno, nella gioia del dono di sé. Ecco perché, mi sento di invitare tutti i giovani a intraprendere questo percorso di crescita, umana e professionale al contempo. E, in particolare, vi propongo la nuova esperienza: “Insieme per crescere”, perchè il volontariato per la Vita ha una marcia in più che si scopre giorno dopo giorno, nell’accoglienza dell’altro.
Fino al 23 Aprile si possono presentare le domande per il Servizio Civile alla Casa di Accoglienza “Madre Teresa di Calcutta” di Viterbo, che accoglie nuclei madre-figlio in stato di disagio. Un intreccio di storie, dunque, e di testimonianze: la mia, quella degli abitanti della casa, quella dei volontari…. E la tua!

Mariantonietta


Dodicenne violentata, rifiuta l’aborto: nessun rimpianto 23 anni dopo.



Lianna Rebolledo era poco più che dodicenne quando fu brutalmente violentata da due uomini vicino casa sua. All’ ospedale i dottori, le dissero che aspettava un bambino e le raccomandarono di abortire. Lianna, dopo aver chiesto al dottore se questo avesse potuto alleviare il suo dolore, e avendo avuto risposta negativa a questa sua domanda, decise di tenere il bambino nonostante tutto.

Racconta: “Se l’ aborto non rappresentava la soluzione, non vedevo perché avrei dovuto fare quella scelta. Ero solo consapevole del fatto che, avevo qualcuno dentro di me. Non mi sono mai curata di chi fosse il padre biologico. Era la mia bambina, era dentro di me”.

Ora Lianna ha 35 anni e non si è mai pentita di aver scelto di far nascere la sua bambina. Non solo, proprio la presenza di sua figlia l’ha aiutata a superare pensieri suicidi: “È stato veramente difficile ma mi è bastato vedere quella piccola creatura che mi mostrava la sua gratitudine per averle dato la vita. 
Infatti, aveva soltanto quattro anni quando per la prima volta mi disse: Mammina, grazie per avermi donato la vita. È stato in quel momento che ho realizzato che era stata proprio lei a ridonarmi la vita”. E conclude: “Nel mio caso, due vite sono state salvate, ho salvato e scelto per la vita di mia figlia ma lei ha salvato la mia”. Anche se la violenza è stato un momento veramente pesante ,se dovessi attraversare questo momento di nuovo, lo rifarei, solo per conoscere e amare mia figlia. C’è sempre stata per me, è l’ unica persona che mi ha mostrato l’ amore vero, le sarò grata per sempre”.

Giorgia Gagliardini

Fonte: lifenews.com

Promuovere la vita nelle parole di Rita.

La testimonianza di Rita Colecchia, Presidente del MPV e del CAV di Termoli, tratta dalla trasmissione “Vivere la Vita” trasmessa il 29 Gennaio 2015 su Molise tv.

Rita, raccontaci di te…
Io vivo a Termoli, sono sposa di Lello dal 1991, ho due magnifici ragazzi, una ragazza di 17 anni Miriam e Jacopo di 12 anni e insegno religione presso l’Istituto Alberghiero di Termoli da 20 anni. Sono presidente del MPV di Termoli dal 2005. Oggi è diventato MPV e CAV di Termoli e svolgiamo questo volontariato con un gruppetto di persone che veramente si spende per promuovere la vita in vari modi.

Da dove nasce il tuo impegno come volontaria MPV?
La proposta di abortire la fecero anche a me ed è da questa esperienza personale che è nato il mio volontariato al servizio della vita. C’era già in embrione perché da quando eravamo fidanzati e novelli sposi volevamo iniziare questo tipo di volontariato, però all’epoca ci sono stati altri percorsi di vita, altri cammini. Ci capitò che nel 2000 rimasi incinta per la seconda volta e quando facemmo l’ecografia morfologica, il ginecologo che era un mio grande amico, era cresciuto con me, mi disse che il bambino aveva una patologia molto seria che non gli permetteva di vivere. E li mi disse: “ io so come la pensi ma te lo devo dire, probabilmente il tuo bambino non potrà vivere, io ti consiglio di effettuare l’aborto.” Ero al quinto mese di gravidanza e nell’aborto che mi dicevano essere terapeutico, io non vedevo una terapia, ma la soppressione di una vita umana. 

Mi è stato consigliato di partorire prematuramente perché questo bambino non aveva prospettive di vita. Io gli risposi, in quel momento mio marito non era con me, c’era mia madre, ” tu lo sai come la penso, questo figlio non è mio è di Dio e solo Dio deciderà della sua vita.” Per cui lo abbiamo accompagnato in tutta la gravidanza fino al termine con la preghiera, con le coccole, con la tenerezza, anche affiancata da una psicologa che già faceva studi sulla psicologia del feto nel grembo materno. Da quel momento, da quella grande proposta negativa che mi venne rivolta dal ginecologo, di abortire, nacque una forza di aiutare altre mamme come me. 

Francesco Pio è venuto alla luce a fine Gennaio del 2001, prima della Giornata per la Vita di quell’anno e salì al cielo il martedì successivo. Quindi veramente il nostro volontariato secondo noi è stato un disegno di Dio e la nostra famiglia con tante famiglie di Termoli svolge un servizio di accompagnamento alle donne in difficoltà che non riescono ad accogliere il proprio figlio perché ci sono delle sofferenze. Una meraviglia del nostro volontariato che volevo sottolineare è che non si salva solo la vita del bambino, si salva anche la mamma. Si pensi alle diverse implicazioni della sindrome post aborto.

Meglio il piccolo principe che il principe azzurro

Alla Giornata per la Vita organizzata dal MPV Fiorentino e dall'arcidiocesi di Firenze, la bellissima storia di una mamma e del suo bambino 

Era un principe azzurro quello che cercavo. Un principe azzurro che si è rivelato un ragazzo con problemi di tossicodipendenza, del quale sono rimasta incinta. Ho abortito. Lui è morto di AIDS. Sono rimasta sola. A parlare è Nicoletta. Una donna ormai matura che raccontando la propria adolescenza ricorda con amarezza gli errori commessi.

Iniziai ad abusare di sostanze. Già quando stavo con lui e anche dopo la sua morte. Arrivai al punto in cui mi dissi “O muoio definitivamente o comincio a risalire”. Fu proprio lì che incontrai un uomo con un passato simile al mio, Daniele. Daniele mi capiva, io lo capivo, avevamo entrambi dei problemi. Dopo un anno ero incinta.

Adesso il piccolo Samuele ha 7 anni. Con i suoi capelli biondi a spazzola e la sua sciarpa svolazzante nelle giornate d’inverno, è la copia esatta del Piccolo Principe della storia di Antoine de Saint-Exupéry. La sua stessa esistenza è testimonianza di vita. Sì, perché Samuele non doveva esistere. La prima cosa a cui pensai fu di abortire una seconda volta – continua Nicoletta - perché alla notizia di essere incinta mi crollò il mondo addosso. Io avevo già 42 anni, avevo fatto uso di sostanze ed ero piena di problemi. Daniele aveva una malattia al fegato degenerativa, era sieropositivo e non aveva un lavoro. Eravamo due persone che facevano fatica a badare a se stesse: come avremmo potuto tenere un bambino?
Dalla richiesta di aborto al giorno dell’intervento ci sono 30 giorni. Un mese in cui tutto cambia per Nicoletta. E’ lo stesso piccolo Samuele a farsi sentire importante. Mi hanno fatto l’ecografia: ho visto il bambino piccolo ma già formato, ho sentito battere il suo cuore. Era come sei mi parlasse. Poi ho parlato con le persone del Centro di Aiuto alla Vita di Brescia. Lì ho cambiato idea, perché ho capito che sarei stata aiutata. Ho capito che sarei stata libera: libera di avere mio figlio nonostante le mie difficoltà.

Samuele è nato sieropositivo - prosegue - ma si è negativizzato nel primo anno. Anche nei momenti più difficili dei suoi 7 anni, anche dopo la morte di Daniele, non ho mai pensato “Ma chi me lo ha fatto fare?”. Il vero aiuto del CAV, i cui volontari mi sono sempre stati vicini, non è stato quello economico: è stato avere accanto persone che sembrava che amassero Samuele già prima che io stessa capissi di amarlo.

ANDREA CUMINATTO 

Leggi dal blog di Andrea QUI

Mihaela, il cuore di una madre tra cielo e terra


Nel percorso della mia vita, ho passato tante fasi belle e brutte; ma poi la tristezza di perdere un figlio in un incidente, per tanti anni, mi ha messo un velo oscuro davanti ai miei occhi.

Passo dopo passo, arrivo in Italia, mi avevano promesso un buon lavoro ed avevo la speranza di salvare la mia mamma da una malattia che la stava portando in fin di vita.

Avevo la speranza di guadagnare per poter comprare la medicina che la manteneva in vita ancora per qualche anno. Non è stato così, una trappola di falsità mi era stata preparata. Mi sono ritrovata per due mesi a desiderare la morte, chiusa sotto chiave come in carcere e costretta a prostituirmi, non posso dirvi altro, non ho parole….come si può costringere un essere umano a tanto per guadagno di soldi? Sono stata liberata da sotto quella “chiave” non appena sono intervenute le forze dell’ordine …mi hanno tirato fuori alla luce del giorno “dove potevo vedere luce e sole”, non mi sembrava vero.

Il tutto è avvenuto perché mio padre dalla Romania mi stava cercando. Al momento della denuncia in Commissariato purtroppo ho dovuto ricevere la notizia della morte della mia mamma. La sua vita si era spenta durante il mio sequestro di due mesi.

Un altro buio, un altro velo di ombra, nel mio cuore non restava altro che dolore, molta rabbia ma anche tanta speranza di farcela e lasciare tutto il passato alle spalle.

Avevo iniziato piano piano ad inserirmi con il lavoro, se si può dire nel “mondo dei viventi sulla terra”. Facendo una vita tranquilla, lavorando.

Ho conosciuto M. poco dopo un anno dal mio incubo, e piano piano il nostro rapporto mi ha aiutata ad andare avanti nel vivere una vita serena….riusciva a coprire i miei dolori del passato .

Ma nel 2009 rimango incinta, e scopro che il nostro bambino aveva già 3 mesi di vita, come mamma lo volevo con tutto il prezzo della mia vita. Era come un risveglio alla vita grazie ai battiti del suo cuoricino. Anche questa volta però ho dovuto fare i conti con altro velo di buio! Ho dovuto fare i conti con la situazione familiare di lui: la moglie ed i suoi due figli. Si decise di non poter far nascere questo figlio. Già al momento della decisione però mi sono sentita anche io come un cadavere che camminava sulla terra fra la gente.

Mi sono trovata senza aiuto per poter portare alla luce colui che già era “Uno di Noi”. Da sola, senza un aiuto, una parola di speranza, una informazione per poter essere indirizzata a qualche Centro di Aiuto alla Vita, ed io potevo salvare quel piccolo cuoricino che batteva dentro di me, quella anima che non ho potuto abbracciare al mio petto, carezzarlo. Il suo battito del cuore che già viveva in me. Respiravamo nello stesso tempo, vivendo insieme come un tutto uno.

Non mi era rimasto che rassegnarmi e così lo affidai al Padre celeste: “Dio accoglilo nelle tue braccia, tu lo sai che non ho nessun aiuto e non ho nemmeno minima speranza per un futuro insieme. La scelta dura e tragica mi ha portato fino a quella tavola chirurgica. Dove sdraiata, con una anestesia, non ho saputo più niente… So soltanto che tremavo forte e piangevo, lo sapevo che anche “piccolo”, quel cuore che batteva nello mio grembo, lo stesso tremava e piangeva.

Io dormivo con l’anestesia ma lui no! Al mio piccolo bambino “Uno di Noi” avevano fermato il battito del suo cuore: era tutto spento… E io mi sono svegliata poi nel buio più totale della mia anima, a fare i conti con il vuoto non solo del mio grembo ma della mia profondità interiore. Dove è quel cuoricino ora? Dove lo hanno portato? Cosa hanno fatto con lui? Come sarà stato il suo sorriso? La luce dei suoi occhi al mondo? Perché? Perché? Perché? Domande senza risposta! Freddo, buio e tanto distacco. Una volta morto lui, avevo capito che anche l’anima mia e il mio cuore erano morti. L’unica cosa mi era rimasta, subito dopo, era scrivere due righe per poterlo affidare alla Regina Maria parlando con lei del mio piccolo.

“Angelo mio tu sei come una farfalla, di giorno voli nella luce del sole, e la notte vai a riposare quando il sole tramonta! Quella Regina Maria ti accolga, ti cresca e ti tenga nelle sue braccia”

Poi sentivo forte il peso della mia anima in pena e così sono andata a confessarmi, e fare il minimo che come mamma ho potuto fare, tenendolo nel cuore.

L’ho chiamato Emanuele, e lo immagino come il suo angioletto e lei come mamma al posto mio. Lo penso anche insieme al mio primo figlio, che morì in Romania all’età di 7 anni per un incidente.

Così passo per passo e giorno per giorno la lotta tra dolore, realtà e riflessioni mi hanno portato a farmi tante domanda, una in particolare. Se c’era qualche aiuto, qualche salvezza per ricevere un consiglio di aiuto? Perché nessuno mi ha parlato di questa possibilità, non c’è solo l’aborto, ma anche la possibilità di poter accogliere e far nascere, grazie ai Centri di Aiuto alla Vita, oggi Emanuele sarebbe con me.

Parlate a tutti, ditelo, scrivete che esistono i volontari per la Vita che nei Centri di Aiuto alla Vita, spesso danno la loro vita per aiutarci.

Oggi lo so che grazie al CAV, ma anche alla Casa di Accoglienza “Madre Teresa di Calcutta” di Viterbo, dove sono stata accolta con Francesco, il figlio che poi mi sono trovata ad aspettare l’anno dopo questa mia terribile esperienza, ho compreso molte cose, ho imparato molte cose ed ho imparato anche che la vita di tante piccole creature può essere salvata da morte per aborto. C’è chi è disponibile ad aiutarli a nascere, aiutando le loro mamme! Basta avere l’informazione al momento della scelta!

Mamma che ti troverai davanti ad una scelta, di vita o di morte, per un cuoricino che batte attimo dopo attimo con il tuo, pensa al suo visino, al suo sorriso, alla luce dei suoi occhi, alle sue manine, che se lo fai! Non potrai sentire mai più la sua voce, vedere mai più i suoi sguardi, non sentirai le sue manine che ti abbracciano, i suoi battiti del cuore:

fuggi da quel posto, da quelle persone che ti aiuterebbero a sopprimere tuo figlio. fuggi insieme a lui e lo salverai insieme ad altri, i volontari per la vita che lottano per difendere i battiti del cuore di “ uno di noi “.

La mamma di tre splendidi figli, dei quali due già in Cielo.

Raffaella: la difficoltà e la gioia della maternità

La Donna dona un grande regalo al mondo, la Vita...

Ci sono situazioni, come nel caso di Raffaella, in cui avere un bambino non è semplice, non è semplice donare questo grande regalo al mondo. Immagino Raffaella munita di speranze, di sogni e di un test di gravidanza,  poi  immagino anche la fatica dell’attesa, quella sensazione strana nello stomaco,  come quando si sentono le farfalle nello stomaco e infine la gioia di vedere che è positivo !
Ma la gioia si trasforma in dolore quando la gravidanza si interrompe. Raffaella e suo marito non perdono la speranza e consultano dei dottori e ritentano più volte, ma ogni volta il risultato è un aborto spontaneo, ogni volta una vita mai nata, ogni volta lacrime, ogni volta i loro sogni sembrano sempre più lontani .  Quando finalmente hanno la certezza di aspettare un bambino incominciano a pensare a come sarà il suo viso, come sarà il suo sorriso, come sarà coccolarlo e abbracciarlo, si pensa alla cameretta, ai vestitini e infine si pensa al nome . Tutto con amore estremo. Ma è un sogno che si spezza ogni volta.

Quando tutto quello che ho appena descritto sopra viene frantumato, rimane una cameretta vuota, dei vestitini mai indossati, e un nome che quella piccola vita mai saprà di avere. È un dolore indescrivibile e fortissimo. Finalmente sembrano aver trovato la causa di tanto dolore: si tratta di un’infezione.

Subito Raffaella comincia la cura e rimane incinta ma a causa di una perdita corre in ospedale dove gli venne comunicata l’assenza di battito. Questa volta però è diverso, Raffaella nel suo profondo sente che quel bambino è vivo,  che non deve assolutamente arrendersi, è sicurissima che doveva fare qualcosa subito per dimostrare che suo figlio era vivo, questa volta  la sua gravidanza sarebbe andata bene. Chiamò il suo medico di fiducia e lo raggiunse sommersa da tante emozioni ma pienamente convinta che dentro di lei era custodita una vita .

Quella visita fu l’inizio di un sogno, era realtà, sentì il battito del suo bambino ed era la musica più dolce che lei e suo marito avessero mai sentito …. Potevano finalmente ricominciare a pensare ai vestitini, alla cameretta, al nome , alla vita insieme a quel bambino che tanto era atteso. Naturalmente non si tratta di una favola, per cui non si può nascondere che il resto della gravidanza non fu facile.  Nonostante le difficoltà, oggi, grazie alla sua forza Raffaella è mamma, e con suo marito, può abbracciare la bambina e innamorarsi ogni giorno di lei.

Xenia Esposto Nardini





Storie di vita, oltre la morte: Isabella e la sua lotta alla Leucemia


Occhi grandi e scuri, capelli biondo chiaro e mossi, un tatuaggio sulla parte alta della schiena. E proprio da quel tatuaggio inizia una storia che magari ai più non suggerirà nulla ma che a me ha così tanto parlato di vita e coraggio da riuscire a commuovermi. “Che significato ha quel tatuaggio?”. Subito mi mordo la lingua, la buona educazione richiederebbe di non rivolgere domande personali a chi si conosce da pochissimo ma ormai il danno è fatto. Isabella si volta, mi sorride e con disinvoltura mi racconta la sua storia mentre siamo in coda per la mensa.
Il tatuaggio che troneggia spavaldo sulla schiena di Isabella è la rappresentazione della fata dell’assenzio, tra le cui ali è inserito il numero 16. Perché il 16 aprile 2010 le parole di un medico del reparto di ematologia di Vicenza fanno crollare il roseo mondo di una ragazzina quattordicenne, annunciandole di essere affetta da Leucemia Linfoblastica Acuta, malattia del sangue e del midollo osseo per cui i globuli bianchi, a causa di alcune cellule tumorali, non distinguono i globuli rossi dai batteri e li attaccano, provocando all’organismo una gravissima anemia.
Da quel momento l’esistenza di Isabella inizia a spegnersi. Alle lacrime si accompagnano la rabbia e il rancore di chi non vede giustizia nel dover sopportare un incidente di vita così grande a soli 14 anni. Il cancro per lei equivale ad una sentenza di morte che non le lascia scampo e all’inizio della sua lunga e faticosa avventura chemioterapica a Padova non c’è speranza ad animare il suo cuore. Rannicchiata sul letto d’ospedale a piangere, mentre la soluzione di chemio e antidolorifici scorre nel sangue per guarirla, lei assiste alla sua esistenza che scivola via, lontana dagli occhi di familiari e medici che non vuole vedere. Ma una mattina Oriana, la sua infermiera, le regala parole che la riportano violentemente alla vita. Quel giorno Isabella, divenuta troppo magra, non riesce ad alzarsi per la visita giornaliera e resta sul letto, accanto al quale arriva Oriana. La guarda con sguardo intenerito e le dice “vuoi lasciarti consumare così principessa? Adesso ti dico una cosa. Hai davanti a te due possibilità: la prima è rimanere qui, così, senza cercare di fare niente; la seconda è quella di diventare una farfalla. Perché adesso sei solo una farfalla chiusa in una crisalide, per uscirne ci vuole tanta forza, tanta sofferenza e bisogna anche essere un po’ incauti. Ma quando uscirai da quella crisalide, sarai la farfalla più bella, te lo assicuro. A te la scelta comunque!”
In quei giorni Isabella si accorge di quanto profondamente sia legata alla propria vita quando prima di dormire, ogni sera, prega per riuscire ad aprire gli occhi la mattina seguente. La leucemia porta ad una morte dolce, offre un sonno che un po’ alla volta spegne gli organi vitali e rallenta inesorabilmente cuore e polmoni. Ma Isabella ora non è sola a combattere il suo mostro: vuole di nuovo accanto a sé la sua bellissima famiglia, la mamma, il papà e le due sorelle, che comprendono i suoi silenzi, la curano amorevolmente nel post chemio, non smettono di farla ridere fino alle lacrime, e donandole la certezza di essere amata in misura incondizionata le insegnano che non c’è prova che tenga davanti ad una famiglia unita.
Il 16 maggio 2011 Isabella, dopo due anni di sofferenza e due incontri ravvicinati con il buio della morte, secondo il responso medico, è guarita completamente e il 16 maggio dell’anno successivo conclude definitivamente il ciclo di terapia. E quando siede davanti a me, ammette la verità di quella frase fatta che spesso ci sentiamo dire: si è accorta di quanto la vita potesse essere un dono solo quando era lì lì per sciuparlo per sempre. Ora guarda la vita negli occhi con coraggio, racconta a chi si imbatte nella sua storia che la vita è un miracolo da accogliere e affrontare a denti stretti, difficoltà dopo difficoltà, anche e soprattutto perché può essere infinitamente bastarda, come dice lei. E poi racconta di quanto, prima di tutto, possa essere un’esperienza piena di gioia, costellata di piccoli e grandi successi come tornare a scuola dopo la malattia, ricominciare a sognare, scoprirsi capaci di trovare soluzioni per superare le prove quotidiane con cui crescere. 
E tutto questo Isabella lo vuole confidare ad una persona in particolare, la sua piccola e dolce nipotina. Anche e soprattutto nella vita nascente di Rebecca, ha riscoperto quanto sia giusto consumare i propri polmoni per urlare che la vita, per quanto difficile possa essere, è bellissima sempre ed è la prima cosa da amare e difendere, senza se e senza ma. 
Per lei ha composto una poesia che toglie il fiato e di cui vorrei riproporre solo pochi versi: “Voglio che tu abbia un nome, un’identità,/ perché tu non ti senta mai uno fra i tanti;/ voglio che tu abbia un perché per ogni cosa,/ perché tu non creda mai di inseguire una causa persa.”
Con l’augurio che tu possa riempire i colori delle tue ali di sogni da inseguire, cause giuste per cui combattere e vite da amare,

Buon volo Isa!


Irene Pivetta

Suor Cristina e l'aborto: «se nascevo nel 2000 l’amniocentesi mi fregava».


Si chiama Cristina Acquistapace, è affetta da sindrome di Down, è una suora. Di lei su internet gira un’intervista video alla trasmissione “A sua immagine”. 

Con parole delicate e precise, in quell’intervista va al cuore di una ferita aperta nella modernità occidentale: l’aborto. «Se nascevo nel 2000 l’amniocentesi mi fregava», dice a un certo punto. Tempi.it si è preso la briga di andare a incontrare a casa sua Cristina, incontrandola in compagnia dei genitori. Ha 41 anni, ma ne dimostra venti in meno quando arriva ad accoglierci con una maglietta viola su cui campeggia la scritta gialla “prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”. Saluta, mentre gioca con due cani che non la mollano mai. Al suo fianco, mamma Marilena. «Siamo una squadra», esordisce Cristina. «Non solo per sostenerci, ma per andare a raccontare quanto bella sia la vita, anche quando ti arriva un pacco come me: prendi due e paghi uno. Di cromosomi intendo. Vero ma’?», ride Cristina, che quando è nata, mamma Marilena era solo una ventenne.

Cosa pensi dell’aborto? «Se nascevo nel 2000 l’amniocentesi mi fregava».
CROMOSOMI. Marilena la mette giù così: «Gli dissi: “Signore sono giovane, se mi dai questo, adesso tu mi aiuti a portarlo. Non sapevo ancora che era proprio mia figlia l’aiuto più grande che stava dando alla mia vita». Ma Cristina si fa seria: «Non esagerare, mamma, che te ne ho dati di problemi… Beh anche voi a me», aggiunge ridendo. Marilena le ricorda che «è normale, dovrebbe essere sempre così tra figli e genitori», ricordano con ironia le sere che «per insegnarle ogni cosa la mandavo a letto sfinita». E le volte che «non le ho risparmiato la fatica di sbrigarsela da sé, ad esempio quando ha ricevuto il primo insulto. Certo che soffro a vederla star male, ma questa è la vita e se l’avessi messa sotto una campana di vetro, sarebbe stato peggio».
Marilena, sin da quando Cristina era piccola, le ha ripetuto questa frase: «Figlia mia, hai un cromosoma in più e non è colpa di nessuno, capita ma noi combatteremo insieme». «Se non glielo avessi spiegato – aggiunge – si sarebbe spaventata di più. I figli non vanno etichettati: cromosoma sì, cromosoma no». Poi le due si guardano e Marilena continua: «Quindi sai che non te le mando a dire: se ho detto che sei la maestra della mia vita è così».

LASCIALO STARE QUELLO, E’ UN IMBECILLE. Come quella volta che Marilena fece un incidente e il conducente dell’auto la insultò. La donna perse il controllo e Cristina le spiegò: «Ma’, non vedi che quello è un imbecille, se ti metti al suo livello rischi di confonderti con lui». Bisogna dire che Cristina sa chiamare le cose solo con il loro nome. E che, pur sincera come una bambina, ha la tempra di una leonessa. «La vita è dura, a volte ti mette in ginocchio, ma c’è molto bene e solo per questo vale la pena vivere… è bello vivere».

E si vede che non mente, perché come Cristina gusta i piatti preparati dal papà che pare un cuoco, come ride alle battute, come guarda le montagne della sua baita, provoca invidia. Pur sapendo che, se anche non lo dice «perché non si lamenta mai» spiega la mamma, spesso i denti le fanno male, le ginocchia cedono e gli acciacchi sono quotidiani.

ESSERE MADRE. «Eh la sofferenza… – continua la ragazza – chi vive in una corazza per non sentirla, non permette nemmeno alla gioia di entrare. Per gioire davvero bisogna accettare il dolore». Questa corazza sarebbe anche il motivo per cui, secondo Cristina, nel mondo d’oggi mancano madri e padri veri: «Senza strappo e sacrificio non si cresce. Restiamo fermi, degli eterni adolescenti. Io invece mi fortifico».

Cosa fa oggi Cristina? «C’è troppa povertà spirituale», dice. Quindi? «Quindi bisogna educare le persone, per questo giro l’Italia». Mentre prima lavorava come cuoca in un asilo, «ora che il fisico tiene meno, do testimonianze nelle scuole, aiuto i giovani che mi chiedono consigli e ne ho adottati alcuni a distanza». Due ragazzi in difficoltà sono i figli acquisiti a cui la famiglia della ragazza ha aperto la porta. Per questo Cristina si definisce una madre, «anche se non biologica come un tempo avrei voluto».

LE MEZZE RISPOSTE NON ESISTONO. Cristina desiderava sposarsi, ma a 19 anni fece un viaggio in Kenya. Lì, aiutò una missione di suore. «Vivendo come loro, mi riscoprivo felice di servire Gesù. E sentii nel cuore che mi chiamava a dargli tutta la vita». Davanti a quell’idea, per la prima volta da quando era nata, anche Marilena dubitò: «Ho combattuto perché frequentasse la scuola quando i Down non ci andavano ancora, perché imparasse tutto quello che le era possibile, ma quella volta pensai a un’infatuazione». Cristina si arrabbiò: «Mamma, io devo vivere la mia vita e se il Signore chiama le mezze risposte non esistono». Quando Marilena sentì Cristina pregare, «con riflessioni di una profondità che mi sbalordiva, capii che era vero».

Fu l’inizio di una nuova battaglia. Sebbene fossero in molti a essere diffidenti di quella vocazione, la congregazione dell’“Ordo Virginum”, che rispondeva all’allora vescovo di Como, monsignor Alessandro Maggiolini, non pose limiti alla provvidenza divina. «Mi trattarono come una donna. Capii che era il mio posto, anche perché volevo servire Cristo stando nel mondo». Come lo ha capito? Facile: «Queste cose si capiscono, è naturale».

Quando a 33 anni la ragazza pronunciò i voti di castità, povertà e obbedienza, al termine della funzione Marilena si avvicinò alla figlia, «per sentirmi correggere ancora una volta: “Adesso è finita finalmente”, le dissi. E lei: “No, è solo cominciata”. Come al solito aveva ragione».

SBOLOGNATA DAI MEDCI. Nel 2008 Cristina cominciò a stare molto male, un virus le faceva traballare le ginocchia. Inizialmente, i medici «mi sbolognarono dicendo che mia capitava così perché sono Down». La risposta alle sue rimostranze fu uno psicofarmaco. Marilena allora portò Cristina in un altro ospedale. «Lì – spiega la mamma – la guardarono come una persona, non per la malattia che ha e le diedero una buona terapia». Ma solo nel 2012 arrivò quella migliore, peccato che prima di dare beneficio la cura prevede due settimane di dolore acutissimo e continuo. «Era diventata troppo dura, ma ecco che mi arrivò il vero l’antidepressivo», ride la ragazza. «Mi regalarono questo cucciolo di cane che si chiama Uriel, il nome di un angelo di Dio, e mi diede forza. Lo sfidai, come faccio sempre con il dolore, e dissi: “Ok, sei solo un cucciolo, io devo fare di te un grande cane”, e cominciai a reagire di nuovo». Uriel arrivò l’8 dicembre scorso, lo stesso giorno in cui Cristina fu concepita: «È la data dell’Immacolata Concezione. Un caso?», dice aprendo le braccia.

LI PRENDO COME SONO. È il momento dei saluti, c’è tempo solo per un’ultima domanda. Cristina, ti capita di sentirti su un altro piano rispetto agli altri? «Diciamo di sì, a volte capisco che non vedete le cose per quelle che sono: un dono continuo del mio Sposo. E quindi si chiacchiera del nulla». E ti spiace? Cristina alza le spalle: «Dipende, se serve una svegliata intervengo, a volte mi arrabbio. Ma gli uomini sono fatti così, li prendo come sono. Come prendo me».

Fonte: Benedetta Frigerio Tempi.it

Grazie di non avermi buttato via.

Katheryn ha 27 anni e cerca la madre che l’ha abbandonata per dirle “grazie di non avermi buttato via”. 

Ogni volta che si affronta il tema di una gravidanza difficile ognuno ha una voce, la mamma, il papà, la famiglia, i medici e gli assistenti, anche i volontari in difesa della vita. In particolare chi difende la vita cerca di dare voce al bambino che non ancora nato è l’unico protagonista silenzioso di ogni esperienza di maternità e paternità.

Ma che succede se a parlare è direttamente la bambina che rischia di essere “buttata via”? Poco importa se questa voce ha impiegato 27 anni, tanti ne ha Katheryn Deprill, una giovane ragazza degli Stati Uniti che ha affidato a Facebook il suo appello: “sto cercando la mia mamma naturale, mi ha dato alla luce il 15 settembre 1986, mi ha abbandonato nel bagno del Burger King poche ore dopo la nascita, aiutatemi a trovarla condividendo il mio post, forse lo vedrà”.

 Intervistata dal canale Fox, Katheryn si è confidata: “ a meno che uno non sia adottato, non è possibile capire quella parte di te che ti manca quando non sai chi sono i tuoi genitori”. Da qui l’idea dell’appello sul social network per ringraziarla: “non riesco a pensare cosa abbia passato, forse viveva una relazione clandestina, ci sono così tante possibili eventualità che non si possono sapere senza mettersi nei suoi panni”.

 Ora spera che la sua storia possa essere d’esempio per tutti quei genitori che non sono in grado di tenere i propri figli: “c’è sempre una possibilità piuttosto che buttare via il proprio bambino, l’adozione è una cosa meravigliosa”. Una testimonianza preziosa che dimostra come scegliere la vita sia sempre la scelta giusta... e in bocca al lupo a Katheryn per la sua ricerca.





Ridare al cuore la vita di Zion: guarda il video.

La straordinaria testimonianza della vita di Zion: il bambino che tutti amano.



Vorrei potervi raccontare una storia a lieto fine. Dove alla fine “vissero TUTTI felici e contenti”.
Vorrei raccontarvi una storia di quelle da film, da romanzo, da fiaba. Ma la vita vera è diversa. C’erano una volta in un Paese lontano (ma alla fine neanche troppo), a Lake Zurich nell’ Illinois, Josh e Robbyn Blick e i loro tre figli. Meno di un anno fa, Robbyn comunicava a tutti la bella notizia: presto, in famiglia, ci sarebbe stato un nuovo arrivo. 

L’entusiasmo per la nuova vita  che cresceva nel grembo della giovane mamma, dopo 20 settimane dall’inizio della gravidanza, viene turbato da una brutta notizia: il piccolo bimbo è affetto da una grave patologia genetica, la trisomia 18, che comporta gravi malformazioni agli organi del corpo e che causa la morte prima della nascita, o al massimo dopo un mese da quando il bimbo vede la luce per la prima volta. Josh e Robbyn, nonostante questo, fin da subito decidono di voler dire sì a questa vita, di voler accogliere il loro bimbo, di voler trascorrere con lui anche poche ore e di dargli in poco tempo tutto l’amore del mondo. E anche di più. 

L’11 Gennaio è il grande giorno. Zion è un  bambino stupendo e il suo pianto sembra alla sua mamma la melodia più straordinaria di tutti i tempi. Pesa solo 2 kg, ma il suo cuore in realtà è talmente grande da accogliere tutto l’affetto che, a partire da quel giorno, la sua famiglia gli ha donato. Mamma, papà e i fratellini sono super felici di poter guardare quel piccolo bambino, capace di inondare di gioia le loro vite e decidono di condividere la loro felicità con il mondo, tramite delle foto. Così, tutti pronti e... CHEEEESEEEE! Sorridete!


  E ancora...       




E poi un’altra..


E un’altra ancora!      



E tutti i meravigliosi scatti li condividono su Instagram per annunciare a tutto il popolo virtuale che il loro bimbo è nato. E sorride. Ed è felice nonostante tutto. Decidono, insomma di testimoniare il valore inestimabile della vita, senza molte parole, ma con tante, tante foto.
10 giorni. 10 intensissimi giorni di vita insieme. 10 giorni vissuti con tenerezza, con amore, con gioia.  Il 21 Gennaio Josh, Robbyn e i loro primi tre figli devono salutare il piccolo Zion. 




Ma non è un addio... C’è di più. C’è l’amore, la speranza.  Ci sono delle mani: Sono sulla piccola bara bianca di Zion, sono quelle impronte delle manine dei suoi fratelli, che segnano l’inizio (e non la fine) di un legame indissolubile. E allora forse questa storia non è poi così triste. E  il suo finale non così drammatico. 

Rimane la gioia, rimane la tenerezza. Rimane soprattutto la testimonianza  di due splendidi genitori  e dei loro figli che hanno saputo amare per 10 giorni il loro piccolo Zion. Quelle foto, queste foto, permetteranno a loro e a noi di ricordare. RI-COR- DARE, che significa ridare al cuore. Queste foto ridaranno per sempre ai nostri cuori la speranza che l’amore per la vita vince sempre! E che magari nella realtà non vivono TUTTI, perché qualcuno, come Zion, non ce la fa. Ma che forse possiamo essere felici e contenti lo stesso per il solo fatto di aver amato una vita umana.



Giovani prolife /LC



Ieri, 3 dicembre ricorre la giornata mondiale dei diritti delle persone con disabilità. Argomento a cui non viene mai dedicato abbastanza tempo, in una società in continua corsa verso qualche effimera mèta. 

Disabilità che fa rima con coraggio, del disabile, certo, ma anche di tutta la famiglia che è chiamata a donare un surplus di amore. Proprio in questa giornata, è doveroso ricordare le tante mamme coraggio che hanno scelto la vita nonostante il mondo esterno gli dicesse di fare a meno del proprio figlio perché disabile. Ma un pensiero speciale va a chi vive la disabilità in prima persona e si impegna a testimoniare che la vita è bella sempre e comunque. 

Ai Giovani Prolife è molto cara la storia di Nick Vujicic, rappresentata nel corto “Il circo della farfalla”, proposto tra l’altro come spunto di riflessione ai giovani vincitori della 26° edizione del Concorso Scolastico Europeo. Nick è nato con una rara malattia genetica, la tetramelia: è privo di arti, senza entrambe le braccia, e senza gambe eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha due dita. La sua vita è stata piena di difficoltà... 

Non ha potuto frequentare la scuola tradizionale a causa del suo handicap, è stato vittima di bullismo a scuola, ha pensato più volte al suicidio fino a quando non si è reso conto che la sua condizione era di ispirazione per molte persone e fondò la organizzazione non-profit “Life Without Limbs”. Con questa, va in giro per il mondo a testimoniare che la vita è un dono e che la dignità umana è intoccabile, sempre e comunque, oltre ogni difficoltà. 

"Lungo la strada potrebbe capitarvi di cadere…E allora che fate? Vi rialzate, tutti sanno come rialzarsi... Ma ci sono momenti della vita che, quando cadi, senti di non avere la forza di rialzarti. E pensi: avrò ancora speranza?... Vedete, io proverò cento volte a rialzarmi e se fallirò cento volte, continuerò a provare. Se fallirò e rinuncerò, pensate che riuscirò ad alzarmi? No! Ma se cadrò, proverò ancora e ancora e ancora… e troverò la forza!", dice Nick. Un uomo pieno di entusiasmo, di forza e di vita. Un uomo da ricordare in questa bellissima occasione della Giornata dei Diritti dei disabili.

Giovanna Sedda

Io sono mamma di FIGLI, non di grumi di materia: la testimonianza di Cecilia.

Arrivano le scuse dell'assessore Ravera, ma le mamme non ci stanno. 


Le parole dell'assessore regionale alla Cultura e alle Politiche Giovanili Lidia Ravera, in un suo recente intervento sull'Huffington Post, sulla decisione del sindaco di Firenze Matteo Renzi di realizzare un cimitero per i bambini non nati, hanno sollevato, giustamente, numerose polemiche. La Ravera così si è espressa: “Chi in buona fede, pensa di procurare sollievo alle non-mamme, mandandole a piangere davanti a un quadratino di terra smossa, sappia che non è così.

È una forma di sadismo di stato. Un'ingerenza intollerabile. Oltreché una palese buffonata.” Cecilia Gioia, donna e mamma, prima che psicoterapeuta, non ci sta. Una testimonianza di un’umanità straordinaria, che mette a nudo le sfaccettature dell’anima di una mamma, quelle che sembrano sconosciute a chi vuole ridurre il dono della maternità ad una mera funzione biologica. 

Leggere queste parole significa immergersi nella bellezza dell’anima di una mamma che sa mettere a nudo le proprie ferite, non per un eroismo ma per una testimonianza di amore. Vi lascio alla lettura delle sue parole, sperando che possano toccare le corde più sensibili della vostra anima, così come è successo a me. 

Per saperne di più visita il sito www.mammachemamme.org
(Alessia Prosperoso)

Sarah and Paige: angeli con una sola ala.

Sarah e Paige vivono l'una a migliaia di km lontana dall'altra. Una in Indiana, nel cuore degli USA e l'altra ad Auckaland (Nuova Zelanda).

Eppure nonostante la distanza hanno qualcosa che le lega e la loro amicizia, coltivata per anni tramite email prima, e skype poi, diventa sempre più speciale. Vivono quasi due vite parallele, si confrontano continuamente, parlano di ragazzi, di sogni, dei loro problemi quotidiani, come tutte le ragazze "normali". 

Già perchè Sarah e Paige sono nate senza un braccio...eppure guardate questo abbraccio qua sopra, quando finalmente sono riuscite a vedersi dopo 8 anni: bellissimo vedere questa gioia e questa vitalità! 
E un pensierino, da buon prolife, lo mando anche alle mamme di queste due splendide ragazze, Patricia ed Emma, che hanno deciso di tenerle e non di buttarle via come magari il mondo diceva loro di fare, ed anzi hanno cercato su internet storie simili alla loro, per farsi coraggio e confrontarsi.

Ed hanno regalato un sogno bellissimo a Sarah e Paige, ma anche a tutti noi...

(Giovanni Gori)

Commuoversi (e far commuovere) a dieci mesi



Il fluire dell'amore tra madre e figlia. 

Il video della bambina di 10 mesi che si commuove ascoltando il canto della mamma sta facendo il giro del mondo, sorprendendo molti ma, soprattutto, lasciando una sensazione di dolcezza in quanti sono disposti ad andare oltre le immagini e a percepirne il senso profondo.

La commozione non è un evento che fa audience al giorno d’oggi, per lo più viene imputata ai caratteri deboli, a coloro che non riescono a controllare a pieno il fluire delle proprie emozioni.

Eppure la commozione mostra la cosa più semplice del mondo, la bellezza della nostra anima. Commuoversi, ovvero “muoversi insieme” indica una relazionalità tra il soggetto che prova il vortice di emozioni e l’oggetto che lo provoca.

Ma non un oggetto fisico o un semplice atto (nel caso di specie il mero atto del cantare della madre). No, c’è molto altro.

C’è una relazione tra soggetti, c’è il fluire dell’amore, quell’empatia che fa sì che la bambina possa riconoscere in quella voce la stessa voce che interiormente ha detto sì, quell’anima che ha accettato il formarsi nel suo grembo di quella creatura, quel corpo che le ha donato la vita e ,con essa, la capacità di potersi stupire dei suoi simili, sino alle lacrime.

Vedendo questo video il pensiero corre a quella fase della vita in cui il bambino è una presenza assente: la vita prenatale. Mi piace immaginare che la mamma cantasse quella canzone alla sua bimba mentre era nel suo grembo. Mi piace pensare che questa relazione di stupore e amore sia iniziata da subito: perché la vita è accogliere l’inaspettato, è stupirsi dell’avvento del nuovo, è relazionarsi con un bene grande che ci è stato donato.

E allora niente vergogna quando una lacrima riga il nostro viso tra un sorriso e un senso di gratitudine inaspettato: è il Mistero della Vita che penetra nel nostro essere. C’è solo da contemplare la grandezza, la bellezza e l’amore di Chi ha voluto che tutto questo accadesse. Il grazie si trasforma in preghiera.

Guarda il video qui.

Alessia Prosperoso
 
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